SIAMO CIO’ CHE MANGIAMO: da Ludwig Feuerbach ai claim nutrizionali, in ballo c’è la libertà del consumatore
In questo post:
Siamo ciò che mangiamo | Ludwig Feuerbach | Cittadini, Consumatori e Produttori | Il Regolamento Europeo sul packaging alimentare | Sicurezza alimentare | Claim nutrizionali e salutistici | Ortorossia
Tempo di lettura: 20′ | A cura di Aurelio Bauckneht
ATTENZIONE: questo post è molto lungo; se preferisci contenuti a misura di twitter, cambia blog… 😉
Siamo ciò che mangiamo: con questo assunto di Ludwig Feuerbach cercheremo di muoverci in un territorio fumoso che unisce la biologia, la filosofia e anche il marketing. L’obiettivo è esplorare quel legame di fiducia che – seppur a volte disatteso – unisce il produttore, il distributore e il cittadino-consumatore, e che trova l’espressione più evidente e simbolica nei claim di comunicazione, in particolare nei claim nutrizionali e salutistici. Stiamo parlando dei segmenti di mercato in cui si è sviluppata la moda del cibo certificato, dei super-food, dei cibi “con” e dei cibi “senza”, e di molte altre tendenze che hanno rivoluzionato il mondo dell’agrifood negli ultimi anni, generando ricchezza di contenuti e differenziazioni di gamma, ma anche derive molto discutibili, come le famigerate fake-news sul comparto agro-alimentare o ancora delle vere e proprie patologie come l’ortorossia.
La comunicazione dei benefici nutrizionali, così come lo storytelling del prodotto e del brand, sono fattori a dir poco essenziali. Lo sono per l’imprenditore dell’agrifood che deve trasmettere i vantaggi differenzianti (quindi di riflesso per tutti gli attori della filiera agricola) e lo sono anche per il fruitore finale, il cittadino-consumatore che sceglie cosa acquistare e come nutrirsi. Noi tutti del resto siamo, sostanzialmente, ciò che mangiamo (parafrasando il pensiero del noto filosofo Ludwig Feuerbach), ma solo se liberi di fare scelte autonome e pienamente consapevoli, anche grazie al marketing e alla comunicazione declinata nel packaging.
Il pieno rispetto e la valorizzazione della relazione Produttore-Consumatore, cioè di questo importantissimo filo rosso che unisce il campo alla tavola, ha un nome chiaro e preciso: product marketing. Proprio qui ci stiamo indirizzando con questa analisi (e in generale con questo blog), con la consapevolezza che generalmente tutto ciò che va oltre il perimetro tracciato da questa fruttuosa relazione, non solo non si chiama più marketing, ma anzi prende un nome completamente diverso, cioè quello di truffa in commercio. Un fatto, con buona pace di tutti quelli che abusano della parola “marketing” nonostante ne ignorino completamente il significato (nda: al primo posto in questa ricca categoria di persone, mettiamo certamente la rinomata Senatrice Elena Cattaneo).
Sulla tensione tra ciò che si può dire e ciò che non si può dire, si gioca l’efficacia di un packaging alimentare e quindi la capacità di trasmettere al cittadino-consumatore i benefici del prodotto che siano di carattere nutrizionale, organolettico o ancora di natura immateriale. Questo confine è ovviamente definito da specifiche normative, in perenne aggiornamento, con le quali i marketer dell’agrifood devono confrontarsi tutti i giorni.
Il quadro che consente al cittadino-consumatore di scegliere di essere “ciò che mangia” è normato a livello nazionale e sovranazionale, in primis con il Regolamento del Parlamento Europeo 1924/2006 che stabilisce “le regole per l’utilizzo delle indicazioni nutrizionali e di salute che possono essere proposte sulle etichette degli alimenti e/o con la pubblicità” favorendo la libertà di scelta e la consapevolezza dell’acquirente. Secondo il regolamento, in linea generale il claim di un prodotto alimentare è consentito solo se veritiero, differenziante, suffragato da dati scientifici e se non attribuisce all’alimento proprietà taumaturgiche o che prevengono/curano malattie. Andando più nello specifico, i cosiddetti claim nutrizionali e salutistici devono rispettare i dettami illustrati qui: nutrition and health claims.
Ovviamente però c’è anche l’altro lato della medaglia. I buoni propositi e i principi guida che animano la normativa, nella concretezza delle indicazioni operative, scivolano a volte in eccessi, in vincoli controproducenti, destinati a danneggiare anche gli imprenditori agrifood animati dalle migliori intenzioni. Le norme non rispecchiano infatti la complessità e la ricchezza dell’agroalimentare, in particolare di quello italiano, e il primo punto a farne le spese è un plus assai caro al comparto: la regionalità e la territorialità, valori che difficilmente risultano comunicabili con efficacia. E’ vero infatti che la comunicazione della qualità spesso e volentieri si ritrova imbrigliata nel reticolo normativo; un ginepraio che, allo stesso tempo, difende e cannibalizza la relazione produttore – consumatore, con grandi differenze tra uno Paese e l’altro. Ad esempio ciò che può essere comunicato negli USA secondo le normative FDA, potrebbe non essere accettato in Europa.
D’altro canto le normative devono gestire un quadro estremamente variegato, ricco di aspetti sostanziali (ad esempio la comunicazione degli allergeni e dei benefit salutistici) e depotenziato da una lunga lista di produttori che nel corso della storia dell’agrifood hanno dato vita a packaging discutibili e a comunicazioni border-line, per non dire menzognere, a supporto di prodotti di pessima qualità. In tutto questo, la storia, i costumi, la ricerca scientifica, le mode e più in generale il mercato, concorrono ad aumentare il livello di complessità. Basti pensare alla curiosa genesi di Coca Cola, inizialmente venduta come un prodotto salutistico (tonico per il mal di testa e la stanchezza) e destinata poi a diventare uno dei soft-drink più venduti al mondo.
Per capire meglio qual è lo stato dell’arte nella relazione Produttore-Consumatore, abbiamo chiesto un veloce parere ad alcuni esperti del settore, ad alcuni trasformatori (nella piena consapevolezza delle grandi battaglie che devono affrontare quotidianamente per consolidare i loro risultati) e ad altri professionisti più vicini ai cittadini. Tanti punti di vista differenti che arricchiremo, alla fine del post, con una buona notizia.
Del resto, se noi tutti siamo ciò che mangiamo, allora anche i produttori dell’agrifood sono ciò che producono!
Prima di procedere con le interviste, pubblichiamo un estratto dal REGOLAMENTO (CE) N. 1924/2006 DEL PARLAMENTO EUROPEO E DEL CONSIGLIO del 20 dicembre 2006, relativo alle indicazioni nutrizionali e sulla salute fornite sui prodotti alimentari. Un testo significativo che evidenzia, tra le altre cose, il campo di applicabilità del regolamento: dalle etichette alle “comunicazioni commerciali, compresa tra l’altro la pubblicità generica di prodotti alimentari e le campagne promozionali”.
Vi è un numero crescente di alimenti etichettati e pubblicizzati nella Comunità recanti indicazioni nutrizionali e sulla salute. Per garantire un elevato livello di tutela dei consumatori e facilitare le loro scelte, i prodotti, compresi quelli importati, immessi sul mercato dovrebbero essere sicuri e adeguatamente etichettati. Una dieta variata e bilanciata costituisce un requisito fondamentale per una buona salute e i singoli prodotti hanno una relativa importanza nel contesto della dieta nel suo complesso. […] Il presente regolamento si dovrebbe applicare a tutte le indicazioni nutrizionali e sulla salute figuranti in comunicazioni commerciali, compresa tra l’altro la pubblicità generica di prodotti alimentari e le campagne promozionali quali quelle appoggiate in toto o in parte da autorità pubbliche. Esso non si dovrebbe applicare alle indicazioni che figurano in comunicazioni non commerciali, quali gli orientamenti o i consigli dietetici espressi da autorità e organi della sanità pubblica, né a comunicazioni e informazioni non commerciali riportate nella stampa e in pubblicazioni scientifiche. Il presente regolamento dovrebbe inoltre applicarsi ai marchi e alle altre denominazioni commerciali che possono essere interpretati come indicazioni nutrizionali o sulla salute.

Gian Franco Rosa, tu sei un allevatore e anche un professore di filosofia. Una perfetta abbinata per la nostra analisi. La prima tappa di questo percorso porta il nome di Ludwig Feuerbach. Nessuno meglio di te può aiutarci ad esplorare questa figura emblematica. Puoi tratteggiare per noi un ritratto del filosofo tedesco?
Possiamo considerare Feuerbach come un grande esponente della filosofia tedesca hegeliana, di quella corrente dei discepoli detta “Sinistra hegeliana”. Ludwig Feuerbach, nato nel 1804 e morto nel 1872, era figlio di un professore universitario di filosofia del diritto; i suoi studi tra Heidelberg, Berlino e Erlangen, lo portano a formarsi in modo solido sulla filosofia di Hegel, riuscendo a criticarla e reinterpretarla. Rimproverava al suo maestro di aver commesso un grave errore: aver capovolto il rapporto che intercorre tra essere e pensiero. Feuerbach infatti riteneva che il punto focale e di partenza della filosofia non dovesse essere il pensiero, ma l’uomo in tutta la sua concretezza. Un altro punto importante della sua filosofia è l’inquadramento della religione intesa come alienazione principale dell’umanità, poiché l’uomo tende a proiettare fuori di sé, in un “altrove”, le proprie principali speranze ed esigenze, in quel Dio che, alla fine, è una invenzione umana. La filosofia di Feuerbach, perciò, assume un taglio antropologico (nel senso che è filosofia dell’uomo naturale, in tutta la sua concretezza), di cui i principali punti sono esposti nell’opera Principi della filosofia dell’avvenire, scritta nel 1843. La celeberrima frase “[…] siamo ciò che mangiamo […]”, tratta dall’opera del 1862 “Il mistero del sacrificio o l’uomo è ciò che mangia”, è stata spesso oggetto di accuse, in quanto ritenuta erroneamente solo una frase ad effetto. Invece è, semplicemente, nell’orizzonte filosofico di Feuerbach, l’esemplificazione del nesso fra intelletto e corpo, fra idee e fisicità, inaugurando una vera e propria teoria degli alimenti, secondo la quale il miglioramento sociale di una popolazione passa anzitutto attraverso la qualità della nutrizione. L’uomo, per il filosofo tedesco, non è un ente astratto, di filosofie vaghe e fuorvianti, ma è fatto di passioni, desideri, sogni…
Siamo ciò che mangiamo: sembrerebbe un assunto tautologico e ontologico, ma in realtà comporta delle conseguenze determinanti nella vita di ogni essere umano. Noi siamo in prima istanza, con le nostre cellule e i nostri pensieri, il cibo che mangiamo e trasformiamo. Eppure l’essere umano è disposto a scendere a compromessi e, spesso, dà maggior valore al tempo e al prezzo, rispetto alla qualità. Perché sottovalutiamo il ruolo del cibo nelle nostre vite? E possiamo dire in sostanza che chi sottovaluta il cibo (anche in termini di prezzo), sottovaluta in realtà la propria vita?
Certo, si può dire eccome, anzi, si dovrebbe riflettere molto su questa considerazione. Da un lato, la vita contemporanea ha creato delle modifiche importanti nella gestione del tempo, permettendoci di studiare maggiormente, lavorare in modo nuovo, spostarci in modo abbastanza agevole, avere accesso a tecnologie che hanno indubbiamente allungato e migliorato la qualità della vita. Dall’altro, l’aver sottratto così tanto tempo alla ricerca/produzione del cibo, assieme ad una massificazione su uno sfondo consumistico, hanno portato proprio ad una sottovalutazione della qualità del cibo, non solo dal punto di vista del prezzo, ma anche nel renderci incapaci di discernere la vera qualità, premiando invece la produzione massiccia, l’apparenza e la velocità nel consumo. Sottovalutare il cibo è, in modo più o meno consapevole, sottovalutare la propria vita: il cibo che si introduce ha la stessa dignità, se volessimo anche molto maggiore, di un vestito di qualità. Il cibo è energia, ci permette di affrontare la nostra quotidianità, è natura trasformata dal nostro corpo, con le complesse procedure attraverso le quali la nutrizione potenzia e perpetua la vita degli esseri viventi.
Qual è il grado di consapevolezza e di responsabilità del produttore agrifood? La ricerca della salubrità e della qualità è vissuta come un imperativo categorico? Quand’è che un produttore accetta di ricorrere a compromessi?
Il produttore agrifood è generalmente molto consapevole del proprio ruolo, che non è semplicemente commerciale, ma anche etico. La qualità della vita è anche legata alla qualità del cibo, per cui offrire prodotti agricoli sani è anche offrire qualità ai consumatori, il che, per un produttore agrifood, è fondamentale. La scelta sta proprio alla base: la produzione non è più quantitativa ma qualitativa, sia che si tratti di allevamento, agricoltura, oppure di una piccola filiera di trasformazione, dal produttore al consumatore. C’è attenzione alla terra, alla salubrità del luogo di produzione, all’igiene dei luoghi di stoccaggio e trasformazione, c’è la soddisfazione di offrire eccellenza, di offrire un valore, un valore etico, offrire del “buono”. Tendenzialmente il compromesso non si accetta poiché significa snaturarsi, perdendo di vista il fine principale: produrre e offrire qualità, per mettere in circolo salute e, oserei dire, “diritto alla felicità alimentare”.
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Mariagrazia Bertaroli, tu sei una produttrice di olio evo d’eccellenza. Cosa vuol dire produrre qualità nel mondo dell’agrifood?
Produrre qualità nel mondo dell’agrifood, dell’olio in particolare, è un concetto polivalente in quanto si riferisce alla qualità merceologica, sensoriale e nutrizionale del prodotto. Questa policromia molte volte induce confusione del consumatore, oltre che creare speculazioni economiche dai risvolti non sempre felici e corretti. Vi è infatti un insieme di fattori dove la ricchezza della varietà di olive autoctone (l’Italia è il solo paese al mondo che possiede oltre 500 cultivar diverse), il territorio olivicolo ove risiedono e le innovazioni di produzione (dove la tradizione è ancora molto forte) vanno ad identificare le proprietà compositive e sensoriali legate al territorio. Fortunatamente fino a qualche anno fa vi era un energico impegno a favore della tutela dell’origine e della qualità, sia da un punto di vista normativo che di definizione dei parametri chimici/fisici. Vorrei però puntualizzare che un prodotto di qualità può far parte o meno di un’eccellenza: eccellenza (termine oggetto di querelle nel mondo accademico dell’olio) cioè che concerne l’azienda, il modus operandi e non solo il contenuto nella bottiglia, il rispetto delle regole e la massima qualità in ogni aspetto della produzione: dalle pratiche agronomiche alla sostenibilità, dalla conduzione responsabile del commercio e all’acquisizione delle materie prime e dei collaboratori, dalla disponibilità ad alleanze per la crescita e la salvaguardia del territorio alla divulgazione e dalla crescita culturale del fruitore; insomma una produzione umanistica e responsabile, perché l’agricoltura non è frutto solo di chi è sul campo ma anche di chi consuma quel prodotto (qualcuno ha detto che mangiare è un atto agricolo).
Se il cittadino-consumatore è ciò che mangia, il produttore allora è ciò che produce. Qual è il motore che alimenta la tua attività?
Per continuare con questo parallelo, anche il nostro motore, il corpo, ha bisogno di un olio di alta qualità, che non apporti semplicemente energia ma mantenga in perfetta forma le componenti. Se poi questi componenti sono gli “insostituibili” organi e tessuti umani, o la velocità e la ricchezza della nostra linfa ematica, piuttosto che la salubrità di un sistema immunitario, ecco, credo che un produttore non si possa sentire esente dalla responsabilità del suo lavoro prima e prodotto poi, perché ha una parte di responsabilità nella salute dell’altro da sé. Stiamo parlando di Olio EVO, un cibo che nutre, alimenta, mantiene, fa crescere, coltiva.
Ma poi c’è anche un altro aspetto da considerare: il produttore di eccellenza è un agricoltore umanistico che preserva e trasmette una cultura ambientale oltre che gastronomica. É colui che propaga una dimensione storica collettiva (ciò che eravamo e siamo), antropologica (l’olio è elemento comune a tutti i popoli del Mediterraneo e non solo), territoriale/ambientale, esperienziale (la degustazione guidata e narrata porta valore ed emozioni), prospettica (costruisce un’empatia ambientale). So che posso sembrare presuntuosa, ma fare olio è un’arte, e come tale non si può ereditare ma solo trasmettere.
La dicitura Olio evo di categoria superiore è emblematica; pochi prodotti agroalimentari possono fregiarsi, a norma di legge, di una definizione così pregnante. Cosa vuol dire esattamente “categoria superiore” e chi può utilizzare questa espressione che è, prima di tutto, una promessa al consumatore?
L’olio EVO viene classificato dalla legge sulla base del metodo di produzione utilizzato, sui livelli di alcuni importanti parametri chimici e su alcuni aspetti organolettici che ne attestano la qualità. Ad onor del vero, “categoria superiore” non è un claim, bensì una dicitura di legge obbligatoria in etichetta. Purtroppo nel tempo è stata usata come “grimaldello” per la vendita di oli che sono frutto dell’industria chimica e non di quella olearia (mi riferisco a quei prodotti in GDO venduti a pochi euro). Reputo sia solo una speculazione mascherata da promessa velleitaria, più che una vera e propria promessa responsabile. E qui è lapalissiano il bisogno di formare la cultura e la conoscenza di un prodotto relegato e sminuito ormai a una mera commodity. Iniziano ad esserci molti operatori della filiera che si stanno opponendo e sono fiduciosa che le cose possa assumere delle declinazioni diverse.
Qual è il giusto prezzo di un prodotto agrifood?
Come per qualsiasi prodotto dell’agrifood ritengo che il giusto prezzo sia un equo profitto tra tutti i soggetti della filiera. Un grande problema degli olivicoltori è proprio riuscire a fare reddito. La creazione di una Eccellenza d’Olio comporta costi molto alti ma d’altro canto genera un valore e come tale deve essere comunicato e sentito e compreso. Se confrontiamo il nord e il centro e il sud della nostra penisola, i costi di produzione, seppur elevati, sono all’interno di una forbice molto ampia; talvolta anche del doppio. Perciò stabilirlo diviene difficile. I calcoli dicono che un Olio EVO costa al produttore da un minimo di 8€ al litro (al sud) ad un massimo di 16€ (al nord).
Cosa rappresentano per te i claim dei prodotti agroalimentari e più in generale quale deve essere la mission del marketing agrifood?
Credo che il marketing esperienziale sia la carta vincente per trasmettere il valore (e non il prezzo, nemmeno il costo) di un prodotto dell’agrifood: il creare nel consumatore un’emozione, attraverso un’esperienza sensoriale, per percepire il prodotto come un valore non legato al consumo. Spingerlo a provare cose nuove, perché ognuno ha gli strumenti per riconoscere il valore del prodotto. E il marketing dell’agrifood credo debba vertere sui contenuti immateriali che recano empatia e conoscenza; e tutto ciò per guidare ad una scelta consapevole, sapendo che è un ingrediente (e non un condimento) che costruisce e sa “fidelizzare” il nostro corpo anatomico. E l’esperienza narrata reputo sia il sentiero vincente insieme all’etica di chi trasmette e chi produce.
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Luigi Forte, seguiamo con interesse le tue attività professionali a cavallo tra produzione, vendita e divulgazione scientifica. Tu hai dato valore all’assunto di Feurbach, declinandolo nel settore zootecnico. Qual è la tua missione?
Fare e costruire cultura del cibo, fin dalle origini, dal campo e dalla stalla. Il mio intento è far conoscere cosa mangiano gli animali, in sinergia con tutti gli attori della filiera, con le rispettive competenze specifiche e responsabilità.
Come ti presenti e cosa presenti al potenziale cliente?
Non mi presento solo ai miei clienti anzi, quando parlo di fare cultura il mio interlocutore è il cittadino. Sono un imprenditore agricolo che 3 anni fa ha realizzato una start up per Dare Valore Primario al settore Primario, cioè alla produzione di cibo. Cerco di avere un approccio innovativo, basato sui contenuti, e allo stesso tempo cerco di non giudicare e di non combattere, tenendomi ai margini delle numerose querelle che caratterizzano il comparto. In generale, io do il via ad una testimonianza b2b che può trasmettere valore alla filiera, favorendo la connessione con il consumatore finale interessato a cosa mette nel piatto.
Il tema quindi è cosa mangiano gli animali. Con il mio progetto Comunicare la Filiera @ IN filiera svelo il mio valore umano, di agricoltore, con il supporto di ricerche, studi, testimonianze, video, storytelling del prodotto e anche degustazioni multisensoriali. La presentazione del foraggio e dell’erba medica diventa quindi un’esperienza per il mio interlocutore; solo così posso trasmettere il valore di questo alimento essenziale per il benessere animale e per la qualità di latte, carne, uova e derivati.
Per questa ragione spesso molti trasformatori mi invitano in fiere ed eventi per completare la catena, per raccontare direttamente al consumatore chi sono, cosa faccio, cosa do da mangiare agli animali.
Questa consapevolezza ha migliorato il tuo business? I tuoi clienti apprezzano il tuo approccio?
Per me è fondamentale instaurare un rapporto umano con gli attori della filiera, anche con il consumatore finale. Poi arriva il valore del prodotto che è cibo per l’animale, per l’uomo, per l’ambiente. I miei clienti apprezzano il mio approccio! Vi invito ad entrare nei miei canali social per comprendere meglio quello che faccio: sito web Open Farm – Facebook – Youtube – Linkedin.
Cosa consiglieresti ad un produttore agrifood per migliorare le sue performance commerciali e il suo brand positioning?
Fare rete in filiera, comunicare il valore e farlo con obiettivi comuni. Ascoltare il consumatore.
Ci vogliamo fare una domanda? Perché i veg si sono allontanati dal cibo animale? Una parte per ragioni ideologiche ma molti perché non sanno cosa mangiano gli animali.
La svolta per migliorare le performance commerciali dell’agrifood è un desiderio che arriva da dentro di noi, se siamo in grado di ascoltarci e di cambiare. Dobbiamo imprimere cultura nel brand, dobbiamo dare noi stessi, la nostra energia positiva.
Cosa rappresentano per te i claim dei prodotti agroalimentari e più in generale quale deve essere la mission del marketing agrifood?
Il consumatore deve essere istruito per creare consapevolezza sul valore del cibo, dalle origini. Latte, carne, uova e derivati non sono sono tutti uguali e hanno specifici valori nutrizionali, per la salute, per la vita. Dobbiamo raccontare la storia del prodotto dalle origini evidenziando quali sono i valori: sostenibilità, benessere, cibo migliore, performance, biodiversità, tracciabilità, valore umano, squadra, rete… questi sono i claim che secondo me spaccano, nel cuore e nella mente del consumatore finale.
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Enrico Artusi, la tua azienda è un esempio del miglior made in Italy, grazie ad un alto grado di consapevolezza e di passione, a cui si somma una forte competenza artigianale. Nella battaglia quotidiana tra prezzo e qualità, la strada del valore e dei contenuti è realmente vincente?
Per la mia azienda è stato fondamentale attuare un cambiamento radicale nella scelta delle materie prime per produrre pasta fresca e pasta ripiena; il nostro primo obiettivo era comunicare il nostro Paese, usare e far conoscere le nostre eccellenze del settore agroalimentare. Noi produttori dobbiamo creare e vendere prodotti del territorio aiutando tutti gli attori del settore agricolo italiano a resistere. La nostra scelta è stata premiata dal mercato. Stiamo vivendo una fase di crescita.
Quale consiglio darebbe ad una startup del comparto agrifood?
Promuovere sempre di più ed in tutti i modi la filiera Italiana, il territorio, la storia del produttore e del prodotto.
Come vivi il senso di responsabilità che ti lega al consumatore?
Mi sento molto responsabile verso il consumatore che deve per forza sapere cosa compra e cosa mangia.
Cos’è per te il marketing? Quali sono i claim che inserisci sui tuoi pack?
Per noi il marketing è soprattutto comunicare chiarezza, trasparenza sul prodotto e sull’etichetta. I nostri claim hanno l’obiettivo di illustrare il nostro approccio alla qualità, di spiegare la nostra passione, di rappresentare il nostro amore per le filiere, di dare forma a quel quid in più, immateriale, che rende il prodotto speciale, unico, degno di essere mangiato, degno di diventare un alimento gustoso e sano per il cittadino.
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Dottoressa Piovan, se Siamo ciò che mangiamo è evidente che il cibo può influire attivamente sulle nostre performance individuali. E’ stato scientificamente provato un legame tra diete specifiche e, ad esempio, le performance intellettive e fisiche?
Sì è stato provato. Nel 2008 il British Medical Journal ha pubblicato una meta-analisi realizzata sulla base di ben 12 studi che hanno coinvolto 1.574.299 individui sani per periodi di tempo variabili (3-18 anni) concludendo che il rispetto di una dieta mediterranea può ridurre in modo significativo la mortalità complessiva, la mortalità da malattie cardiovascolari, l’incidenza o la mortalità da patologie tumorali, l’incidenza dei morbi di Parkinson e Alzheimer. La dieta Mediterranea, oggi patrimonio immateriale dell’Umanità, privilegia verdura e frutta di stagione, semi e frutta in guscio, cereali, legumi, pesce e in minor quantità carne, uova e formaggi, olio di oliva meglio se extravergine come condimento. L’apporto calorico giornaliero dei macronutrienti previsto è così suddiviso: carboidrati (52-55%), grassi (25-30%), proteine (12-13 %). Il giusto bilanciamento viene calcolato in base alla soggettività e tiene conto di sesso, età, antropometria e stile di vita.
Dietro l’assunto Siamo ciò che mangiamo si nascondono delle patologie come l’ortoressia e vigoressia. Che cosa sono esattamente e come si sviluppano? Quand’è che la virtù si trasforma in ossessione?
Premetto che per i soggetti affetti da disturbi alimentari mi avvalgo della collaborazione di una psicoterapeuta che si occupa specificatamente di questi problemi, la dottoressa Lucia Camporese di Padova. L’ortoressia è l’ossessione del mangiar sano. Nasce dalla volontà di migliorare la propria forma fisica o dal timore di sviluppare malattie che affliggono la società moderna o la propria famiglia. Talvolta soggetti affetti da disturbi dell’apparato gastroenterico, che la medicina non ha saputo risolvere, cercano una soluzione aderendo a regimi nutrizionali che promettono risultati certi. Inizialmente vengono ridotti o evitati alcuni cibi percepiti come nocivi o poco salutari, nel corso del tempo ulteriori cibi vengono eliminati e infine la dieta si riduce a pochi alimenti che sono considerati sani e sicuri (cit. dr.ssa Lucia Camporese).
In letteratura l’ortoressia è spesso identificata come un disturbo dell’alimentazione, un disturbo dello spettro ossessivo-compulsivo, talvolta con caratteristiche cliniche comuni con l’anoressia nervosa. Si può parlare di ortoressia quando le attività quotidiane sono subordinate alla pianificazione, all’acquisto e alla preparazione dei pasti, secondo una precisa dieta.
La vigoressia è invece l’ossessione per il tono muscolare contraddistinta da allenamento quotidiano, dalla continua valutazione della propria composizione corporea e in genere supportata da dieta ipocalorica e iperproteica. La vita sociale e il lavoro vengono messi in secondo piano rispetto la dieta e l’aspetto fisico. Le cause come per l’ortoressia sono dovute ad una combinazione di diversi fattori: psicologici, sociali, biologici.
Curare l’ortoressia e la vigoressia non è semplice considerando il fatto che difficilmente queste persone si rivolgono ad esperti e anche di fronte a complicanze mediche non imputano mai una relazione tra quest’ultime e le regole dietetiche adottate proprio perché le ritengono corrette e perché le seguono con molto rigore.
In linea generale come giudica l’utilizzo dei claim e le tabelle nutrizionali normalmente presenti sui packaging alimentari?
Ritengo che siamo ancora molto lontani dallo scopo e i claim spesso siano ingannevoli e fuorvianti per i consumatori che vengono persuasi ad acquistare prodotti talvolta più costosi ma che non sono migliori di altri o addirittura sono peggiori . Un esempio è la dicitura “senza zuccheri aggiunti”, ma il prodotto contiene fonti “nascoste” di zucchero come succhi concentrati, puree e paste di frutta molto zuccherine, oppure una gran quantità di edulcoranti che sicuramente salutari non sono. A volte creano falsi bisogni come le patate al selenio quando la popolazione nel nostro territorio non risulta carente.
La comunicazione del biologico e del cibo alternativa ha, in linea generale, costruito una divisione manichea (e a nostro parere completamente errata) tra il cibo “sano” e il cibo “avvelenato” convenzionale. Crede che tutto questo abbia qualcosa a che fare con l’ortoressia?
A mio parere questa divisione vale, per fortuna, solo per gruppi ristretti di estremisti anche se il loro numero tende a incrementare. Per quanto riguarda la mia piccola realtà ambulatoriale, tra i miei pazienti non ce ne sono molti con queste caratteristiche; arrivano per trovare riscontro e sperano che il nutrizionista avvalori le loro scelte, ma quando le loro speranze vengono disattese abbandonano il percorso proposto e cercano un altrove che li soddisfi.
Ritengo che il marketing del biologico e del cibo alternativo sia un’importante concausa dell’ortoressia anche se sicuramente non la sola. La prevalenza dell’ortoressia sembra essere più elevata tra i vegani, i crudisti, così come tra persone impegnate nelle associazioni animaliste e sostenitori del cibo organico e/o non modificato geneticamente.
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Dario Dongo, il REGOLAMENTO (CE) N. 1924/2006 DEL PARLAMENTO EUROPEO limita in maniera ferrea la comunicazione dei claim nutrizionali-salutistici e in generale la comunicazione dei benefici offerti dal prodotto. Quali sono le indicazioni generali e i principi guida che un produttore deve rispettare?
Il regolamento CE 1924/06 e successive modifiche ha introdotto una disciplina generale e armonizzata dell’impiego di Nutrition & Health Claims nell’informazione commerciale (etichette e pubblicità) relativa agli alimenti. Prevedendo anzitutto obblighi generali di trasparenza e fondatezza delle notizie fornite ai consumatori.
L’Allegato al predetto regolamento contiene un elenco tassativo delle sole indicazioni nutrizionali ammesse (c.d. nutrition claims), le condizioni d’utilizzo e i relativi schemi di comunicazione. Si veda ad esempio, per quanto attiene ai c.d. ‘grassi buoni’, questo articolo.
Il regolamento UE 432/12 e seguenti integrazioni, a sua volta, riferisce le sole indicazioni relative alla salute autorizzate dalla Commissione europea, c.d. health claims, a seguito di appositi pareri dell’Efsa. Per un esempio, si vedano in questo articolo le dichiarazioni ammesse su alimenti che costituiscono fonte di ferro.
L’1 aprile 2017 – dopo oltre 10 anni dall’entrata in vigore del regolamento NHC (Nutrition & Health Claims) – sono finalmente entrate in vigore anche in Italia le sanzioni specifiche. Sebbene le violazioni delle anzidette regole siano state in alcuni casi considerati dall’Autorità Garante per la Concorrenza e il Mercato, c.d. Antitrust (si veda qui la rassegna).
In linea generale, qual è lo stato dell’arte della comunicazione agrifood rivolta ai cittadini-consumatori?
Per chiarezza d’informazione, riporto alcuni esempi a seguire:
- falsi chinotti e cedrate
- false indicazioni di quantità degli ingredienti caratteristici
- false dichiarazioni d’origine
- indicazioni fuorilegge degli allergeni
L’estensione del fenomeno è ancor più marcata nel settore dei ‘pet food’, come ho pure evidenziato qui:
Pet Food: 3 su 4 fuorilegge
Inganni in etichetta di cibi per cani e gatti
Per Food: Gift diffida il distributore
Chi abusa di claim nutrizionali e salutistici? Può farci qualche esempio?
Gli abusi più gravi derivano dalla mancata adozione dei profili nutrizionali, da parte della Commissione europea (qui in dettaglio).
Altresì diffuso è l’impiego abusivo della dicitura ‘senza glutine’, ammantata di un falso ‘halo’ salutistico (qui in dettaglio). Laddove gli alimenti senza glutine non offrono alcun beneficio per la salute della popolazione generale, al di fuori dei soli consumatori allergici a singoli cereali nonché ai celiaci (qui in dettaglio).
Un altro abuso diffuso, in tema di claim nutrizionali e salutistici, riguarda l’impiego di marchi che suggeriscono virtù inesistenti. Un esempio su tutti il marchio ‘SanOil’ utilizzato da San Carlo per identificare un mix di oli vegetali che contiene, tra gli altri, l’olio di palma.
Vi sono poi ricorrenti abusi su semilavorati (ne ho parlato qui) e prodotti che circolano su canali diversi dalla Grande Distribuzione Organizzata. Farmacie, parafarmacie, vendite piramidali ed ecommerce (qui in dettaglio).
Il mondo del bio ha creato un immaginario dicotomico tra cibo sano e cibo avvelenato. Cosa ne pensa di questa estremizzazione?
Personalmente credo che il sistema di produzione agroalimentare biologica rappresenti un’occasione unica e meritevole per salvaguardare la salute umana e dell’ambiente (ne ho parlato qui), oltreché il benessere animale (e anche qui).
Il modello di agricoltura integrata – che è nato proprio in Italia, mediante elaborazione di una norma volontaria UNI la cui applicazione è poi divenuta obbligatoria, nel nostro Paese prima che in UE è purtroppo disapplicato nei fatti (vedi qui un approfondimento).
La situazione nel Bel Paese è drammatica, come dimostrano i rapporti annuali ISPRA sulla qualità delle acque superficiali e sotterranee, ove sono rilevati oltre 250 principi attivi di pesticidi vietati da decadi (come DDT e atrazina).
I dati sul consumo di pesticidi in Italia sono altresì allarmanti, incompatibili con il nostro ruolo pionieristico – ed evidentemente, solo teorico – nell’adozione della lotta integrata in agricoltura. Il nostro Paese utilizza infatti una quantità di pesticidi per SAU (Superficie Agricola Utilizzata) di gran lunga superiore alla media europea.
La nostra agricoltura ‘convenzionale’ ha acquistato, nel 2016, 125 mila tonnellate di prodotti agrochimici (pesticidi e fertilizzanti), irrorando l’ambiente e le popolazioni con sostanze tossiche, cancerogene e mutagene, oltreché provviste di effetti neurotossici e interferenti endocrini. Con un effetto deriva che colpisce senza preavviso né idonee regole la salute pubblica delle popolazioni (vedi qui un approfondimento).
È perciò indispensabile promuovere l’agricoltura biologica, rafforzare i controlli in agricoltura, fermare il contrabbando di agrotossici tramite e-commerce (vedi qui), proteggere la salute di esseri umani e ambiente. Senza dimenticare, a tale ultimo proposito, l’urgenza di abrogare l’articolo 41 del decreto Genova, che legittima l’immissione di fanghi tossici in agricoltura (e anche qui).
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Grazie a tutti i nostri “ospiti” per i preziosi contributi. La delicatezza del tema è palesata da alcune distonie emerse tra le varie interviste. Chiudiamo questo breve excursus con la segnalazione di un recente articolo de Il Fatto Alimentare: Le etichette nutrizionali migliorano la dieta. Un nuovo studio dimostra la loro utilità per fare scelte più consapevoli:
“Almeno in alcuni casi, le etichette nutrizionali aiutano ad assumere comportamenti più virtuosi. Lo dimostra una grande metanalisi condotta da uno dei centri di ricerca sull’alimentazione umana più importanti del mondo, quello della Tufts University di Boston guidato da Darius Mozaffarian, appena pubblicata sull’American Journal of Preventive Medicine. Da essa emerge infatti che per alcune categorie di nutrienti, le indicazioni nutrizionali, comunque formulate, aiutano chi mangia a scegliere meglio e a consumare meno calorie e classi di nutrienti nocive, se in eccesso, e spingono le aziende a modificare spontaneamente la composizione degli alimenti pronti, sia pure in misura parziale. […] La consapevolezza e le maggiori conoscenze correlate alle etichette nutrizionali aiutano a fare scelte migliori. […] Anche se gli effetti positivi non sono (per ora) dimostrati su tutte le categorie di nutrienti, e pur con tutte le cautele metodologiche del caso, la ricerca firmata da Food-Price lascia pochi dubbi sul ruolo importante delle etichette nutrizionali nel miglioramento della dieta.”