La comunicazione d’impresa può imparare qualcosa dalla comunicazione politica? O viceversa?

In questo articolo:
Il referendum del 4/12/2016 | Spin doctor vs consulenti di comunicazione | Prosumer vs Elettori | Comunicazione politica vs comunicazione d’impresa | Jim Messina | Matteo e Agnese | Qualche esempio dal mondo agrifood

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Campagna referendaria: se Renzi avesse chiesto il supporto di un consulente di comunicazione d’impresa, invece che quello di uno spin doctor specializzato in comunicazione politica, cosa sarebbe successo? Può sembrare una domanda off-topic per il nostro blog, forse lo è, ma non del tutto!

L’analisi della comunicazione del referendum del 4 dicembre 2016 può fornire qualche utile spunto agli Imprenditori dell’agroalimentare italiano per calibrare al meglio le loro strategie. Approfittiamo quindi di questa bella scusa per dare vita ad un articoletto che si rivelerà essere un valido manuale sulla costruzione di un messaggio pubblicitario.

La comunicazione d’impresa e la comunicazione politica seguono due logiche completamente opposte.

La prima, la comunicazione d’impresa, è basata sul perseguimento di un obiettivo commerciale grazie alla creazione di un posizionamento distintivo nella mente del consumatore; essenziale per tutto questo la veicolazione di informazioni fattuali, abbinate all’utilizzo di leve di comunicazione positive: il desiderio, l’ambizione, la gratificazione, il gusto, la novità, la passione, la salute, il risparmio e – in una dimensione più alta – gli archetipi, come il culto della bellezza, la perfezione dell’armonia, la dimensione del sogno, la nostalgia della fanciullezza, il potere dell’idea, la fascinazione della tecnica e della tecnologia; tutto questo per muovere mente e cuore verso il nuovo, verso il raggiungimento di nuove performance, verso la soddisfazione di bisogni primari e secondari, e molto altro ancora. La persuasione del consumatore, cioè l’invito all’azione o all’acquisto, si poggia pertanto su contenuti razionali ed emozionali, tramite la comunicazione di ragioni e benefici per alimentare scelte deduttive e induttive. 

La comunicazione politica al contrario è (quasi sempre) sinonimo di propaganda, cioè la diffusione di una idea negativa che paradossalmente ha come primo obiettivo non la persuasione dell’elettore, ma piuttosto la denigrazione dell’avversario, nella logica manicheista dell’aut aut. Come se la scelta politica dell’elettore fosse effettivamente dettata da esclusive logiche induttive (lo voto perché è il meno peggio) e da mere fascinazioni emozionali (sì, quello è il mio leader). I contenuti strategici scompaiono e tutto corre verso una comunicazione tattica che è in pratica solo fuoco di fila, sistematico nella copertura della quotidianità, ma molto incerto nella mira. Le scelte deduttive vengono meno e la parte istintiva domina, andando a derubricare il valore di programmi o altri approcci basati sul significato. Il posizionamento politico diventa pertanto effimero, mutevole e contraddittorio, a confronto con il posizionamento aziendale, scolpito nella pietra, mutabile solo a costo di enormi sacrifici.

In altre parole l’impresa promette benefici diretti – materiali o immateriali – al consumatore e comunica le prove che ne certificano il valore. Il partito (del nostro tempo) promette invece al Cittadino qualcosa di diverso, di vago; un fumus post-ideologico assai opaco, nebbioso, in cui emerge un sentimento, meramente sportivo, quasi religioso. 

In questa polarità, con la scusa del referendum, cercheremo di capire se la comunicazione d’impresa può imparare qualcosa dalla comunicazione politica, o viceversa, incrociando l’analisi con alcuni esempi emblematici presi dal mercato dell’agrifood. Al centro, la visione che l’azienda può avere del suo cliente (prosumer), a confronto con la figura dell’elettore.

LA PROMESSA E LA UNIQUE SELLING PREPOSITION

Ogni interazione Azienda – Consumatore è basata su una PROMESSA. L’Azienda, dicevamo, propone al potenziale cliente un prodotto/servizio garantendo un beneficio materiale o immateriale. La costruzione del messaggio promozionale parte quindi dall’identificazione di una proposta commerciale basata su un patto di fiducia, un do ut des che deve essere rispettato, pena il mancato riacquisto.

La PROMESSA, per funzionare, deve avere delle caratteristiche ben precise:

– deve essere semplice, diretta, chiara, univoca, focalizzata, non replicabile dalla concorrenza e, quindi, distintiva (in questo senso parliamo di UNIQUE SELLING PREPOSITION).

L’interazione Partito – Cittadino in teoria è similare e basterebbe questo per farci pensare che le strategie di comunicazione d’impresa e di comunicazione politica non debbano essere poi così dissimili. Il programma pre-elettorale di ogni partito è sostanzialmente una grande PROMESSA e lo stesso potremmo dire del progetto di riforma costituzionale; in ultima istanza non potremmo sintetizzare tutto in una frase del tipo “caro Cittadino, ti promettiamo un’Italia più efficiente e più risparmiosa”?

In realtà, no, non possiamo. Il progetto di riforma prevedeva la modifica sostanziale di ben 39 articoli, riconducibili ad almeno 4 macro-aree; un po’ troppo per costruire una UNIQUE SELLING PREPOSITION semplice e sintetica.

Le 4 macro-aree della riforma costituzionale:

– il superamento del bicameralismo perfetto con l’abolizione del Senato
– la revisione delle competenze Stato/Regioni
– la messa a punto delle modalità di partecipazione dei cittadini alla vita politica (referendum propositivi e altro)
– l’abolizione del CNEL e delle province

Al di là di ogni considerazione politica, è evidente che la strategia della UNIQUE SELLING PREPOSITION è venuta meno di fronte ad un progetto di riforma così complesso e articolato. Sarebbe stato meglio suddividere il progetto di revisione della Costituzione in un percorso pluriennale; ad esempio affrontando una macro-area all’anno, in modo da focalizzare il piano di comunicazione su un unico tema, specifico e possibilmente sintetizzabile in poche parole chiave o, ancora meglio, in una sola. Le tematiche avrebbero poi dovute essere affrontare in ordine progressivo, dalla più semplice alla più complessa, in modo da costruire, anno dopo anno, un percorso di credibilità e coerenza. In sintesi:

ANNO 1: l’abolizione del CNEL/Province: NO SPRECHI

ANNO 2: competenze Stato/Regioni: BUON SENSO

ANNO 3: partecipazione dei cittadini: DEMOCRAZIA

ANNO 4: superamento bicameralismo: SEMPLIFICAZIONE

Non sarebbe stato più semplice pianificare questi quattro piani di comunicazione, uno alla volta, ognuno rafforzato dal buon esito del precedente?

Proviamo a capire meglio il ragionamento con una similitudine dal mondo dell’impresa. È come se Barilla decidesse di unire le sue unità di vendita in una unica ed esclusiva confezione combi: 5 pacchi di pasta differenti, 5 sughi differenti, 5 pacchi di biscotti Mulino Bianco, 5 pacchi di cracker, il tutto in un bel box a scatola chiusa. Con quale obiettivo? Togliere la libertà di scelta al consumatore? Imporgli un paniere preconfezionato? Un’operazione, nel mondo della GDO, semplicemente impensabile. Con questa modalità “combi”, il progetto di riforma non solo ha tolto forza ad ogni singolo tema, ma soprattutto ha imposto di votare NO all’intero pacchetto, anche a quella fetta del target che condivideva una parte variabile del progetto, magari anche il 70-80% dell’intera riforma.

Nel commercio, l’unità di vendita mantiene sempre la sua univocità, il suo posizionamento strategico, concorrendo con il packaging e con il brand alla costruzione della PROMESSA: acquista questo sugo, è ottimo e ti aiuterà a preparare un pranzo gustoso.

REASON WHY

Nel processo di costruzione del messaggio pubblicitario le REASON WHY seguono e supportano direttamente la PROMESSA, dandole credibilità: il mio sugo è un ottimo prodotto che ti permetterà di preparare facilmente un pranzo gustoso (PROMESSA) perché è realizzato con ingredienti genuini cucinati secondo la ricetta tradizionale (REASON WHY). Una sola UNIQUE SELLING PREPOSITION permette di esplicitare velocemente REASON WHY chiare e coerenti. QUATTRO SELLING PREPOSITION saranno seguite necessariamente da un alto numero di REASON WHY difficili da illustrare e soprattutto da memorizzare. Tornando al nostro pacco combi Barilla: immaginate di aggiungere nella scatola una brochure di 50 pagine per illustrare le REASON WHY delle 20 referenze.

Altro aspetto fondamentale: le REASON WHY dovranno essere chiare, pulite e inattaccabili. Cosa succederebbe se un plus di prodotto si rivelasse falso? Quale tempesta mediatica ne seguirebbe? Il progetto di riforma costituzionale prevedeva una lunga lista di REASON WHY, ma le più efficaci erano riconducibili ai risparmi e all’efficienza. Da questo punto di vista i balletti sulle cifre non hanno certo aiutato; nei giorni della campagna abbiamo visto girare cifre significative, salvo poi essere contestate dall’opposto schieramento, e soprattutto dalla Ragioneria dello Stato. Ma una REASON WHY non dovrebbe essere contestabile, per definizione. Anche sull’efficientamento promesso, scoprire che il Parlamento italiano non è affatto lento quando c’è una chiara volontà politica e che il fenomeno delle “navette” riguarda solo un numero limitato di proposte di legge (innumerevoli a questo proposito i dati forniti da vari analisiti), non ha ovviamente giovato. Ripetiamo: le REASON WHY devono essere poche, ficcanti e totalmente inattaccabili. In un mondo in cui i prosumer sono in grado di verificare tutto (fact checking), con grande facilità, l’etica della comunicazione oltre ad essere un impegno fondativo dell’azienda (e auspicabilmente della politica), diventa una assoluta necessità.

SUPPORTING EVIDENCE

Una buona promessa, aiutata dalle REASON WHY, necessita di un altro tassello per completare il puzzle: le SUPPORTING EVIDENCE, cioè quelle prove, preferibilmente fornite da un ente terzo accreditato, che confermano le REASON WHY. Tornando al nostro esempio: il mio sugo è un ottimo prodotto che ti permetterà di preparare facilmente un buon pranzo (promessa) perché è realizzato con ingredienti genuini cucinati secondo la ricetta tradizionale (reason why) e certificati 100% made in Italy (supporting evidence). Se le REASON WHY devono essere inattaccabili, le SUPPORTING EVIDENCE devono essere granitiche.
Emblematiche in questo senso le numerose contestazioni sull’affidabilità delle certificazioni biologiche. Tutto il comparto bio, in costante crescita, paga i numerosi dubbi dei consumatori sulle garanzie offerte dagli enti addetti ai controlli, andando a limitare una crescita che, anno dopo anno, potrebbe svilupparsi con ulteriore slancio.

I sostenitori del progetto di riforma costituzionale hanno messo in pista numerose SUPPORTING EVIDENCE, ma in alcuni casi chi si era accollato l’incarico di dare credibilità al progetto, si è reso colpevole in realtà di fuoco amico, silurando con accurata precisione tutto il comitato promotore del Sì sotto la linea di galleggiamento. Lo scenario apocalittico disegnato da Confindustria (calo del pil, riduzione degli investimenti…) ha suscitato molte ilarità e di certo non ha aiutato la campagna. Meglio sarebbe stato mantenere un tono più istituzionale, autorevole, mettendo da parte profezie degne del Mago Otelma.
 
Le certificazioni terze (premi, qualità, tracciabilità e provenienza degli ingredienti, processi, assenza di allergeni…) costruiscono attorno alla promessa un fortino di credibilità che influenza positivamente il processo di vendita. Tutto questo deve essere comunicato mantenendo il più alto livello etico, nel pieno rispetto dei prosumer. Se i prosumer o i giornalisti vedranno proprio su queste mura di credibilità una breccia, una crepa o anche solo una incrinatura, faranno inevitabilmente tutto il possibile per trasformare quel piccolo varco in una voragine. Report insegna.

TONE OF VOICE

Una volta costruito lo scheletro portante del messaggio, dovremo andare a caratterizzarlo con lo stile e con il tono aziendale. Utilizzeremo un approccio minimalista o tradizionale? Austero o frizzante? Divulgativo o scientifico? Amichevole o istituzionale? Queste polarità aiutano a definire il posizionamento del prodotto e del brand, andando a qualificare la personalità della marca. Caratterizzazioni che nascono dalla tradizione e dal vissuto aziendale e spesso rispecchiano direttamente la personalità e gli ideali dell’imprenditore (nda: degli imprenditori che fanno comunicazione, da Steve Jobs a Rana, ne parleremo in futuro in un post ad hoc).

Per quanto riguarda il tono di comunicazione, è indubbia la straordinaria ventata di freschezza che il Partito Democratico ha portato negli ultimi anni nella comunicazione politica italiana. Con uno stile luminoso e arioso, sviluppato con coerenza attorno ad un logo ben riuscito, il PD ha dato vita ad una identità di partito (corporate identity) che non ha pari nel panorama politico. Questi punti di forza sono stati riversati nella campagna referendaria, conferendo a tutti gli strumenti di comunicazione una sicura efficacia ed una gradevolezza grafica decisamente distintiva, applicata sempre con grande coerenza. Ma, attenzione, il TONE OF VOICE è un concetto che non si limita alla declinazione di una corporate identity ben riuscita; è un qualcosa di più profondo che nasce nell’alveo della tradizione storica del brand e del posizionamento. In questo senso cos’è mancato nel corso della campagna referendaria?

Segnaliamo due scivoloni macroscopici:

Costituzione Anpi
Un’immagine significativa del sito www.anpi.it

– Il conflitto con l’ANPI – che a molti è sembrato prendere la forma di una vera e propria campagna di disinformazione – è stato gestito nel peggiore dei modi. È come se Barilla lanciasse una campagna contro il glutine; come se Campari si pronunciasse contro la tradizione dell’aperitivo; come se AIA dichiarasse che la carne fa venire il cancro. Una rottura che ha dell’incredibile, non nel merito politico (tematiche di cui non ci occupiamo), ma nella gestione delle relazioni che ne è seguito.

– Il secondo errore, emblematico del dna della comunicazione politica, è stato la sistematica denigrazione dell’elettorato avversario. A che pro? È così che si conquistano voti?

voto_noIl comitato del Sì ha attraversato con poche cautele un terreno delicatissimo e sdrucciolevole, quello che porta verso la pubblicità comparativa, e gli schizzi di fango che ne sono seguiti non sono certo passati inosservati. 

Il famigerato mailing di berlusconiana memoria, presentava all’interno una doppia pagina: la prima a sinistra su fondo chiaro con le ragioni del sì e numerose testimonianze di giovani sostenitori e brillanti cittadini con tanto di foto sorridente; la seconda pagina a destra su fondo scuro con un collage dei volti di Grillo, D’Alema, Monti, Brunetta e altri “contestatori” ripresi in pose piuttosto cupe e aggressive (è finito in questa accozzaglia anche il noto costituzionalista Zagrebelsky, probabilmente la persona più pacata della storia repubblicana). Questo stile, questo TONE OF VOICE, ci porta evidentemente fuori dal modus operandi della comunicazione professionale; sembra piuttosto un approccio adolescenziale, decisamente superficiale, similare alle tecniche utilizzate di recente dallo staff del Ministro Lorenzin per la famigerata campagna sugli stili di vita. Ma veramente qualcuno ha pensato che la dicotomia chiaro/scuro potesse funzionare? Ma davvero qualcuno ha pensato che nell’epoca dei prosumer potesse passare inosservata in questa doppia pagina del “bene vs male” l’assenza di pezzi da novanta come Verdini, Tosi o Alfano? Il cittadino elettore non ha oramai diritto ad una maggiore considerazione?

La pubblicità comparativa è assai rischiosa e di solito viene utilizzata in due modalità: con un TONE OF VOICE ironico e magari anche auto-ironico (memorabili ad esempio gli scambi Coca Cola – Pepsi), oppure con un tono scientifico e inoppugnabile (su tutte: la nota campagna Plasmon – Barilla sull’alimentazione per l’infanzia). Giocare con la pubblicità comparativa, con contenuti superficiali e ripetiamo, adolescenziali, è molto rischioso.

Secondo esempio: il video dell’autostoppista Aosta-Torino, dal chiaro intento denigratorio. Ma perché umiliare l’elettorato avversario? Quale sottile meccanismo psicologico dovrebbe innescare un video di questo tipo? E qui ritorniamo alla macroscopica differenza tra comunicazione politica e comunicazione d’impresa. La prima che continua a denigrare il cittadino-elettore con leve negative, la seconda che cerca di sedurre il cittadino-consumatore portandolo dalla propria parte con leve positive. È come se, continuiamo con i nostri esempi agroalimentari, Colussi con la sua nuova linea di biscotti senza olio di palma, umiliasse apertamente il consumatore di prodotti Ferrero perché ancora a base di olio di palma, con uno spot tutto giocato su consumatori felici e in forma, a fianco di consumatori sovrappeso e tristi. Piuttosto stucchevole. Un partito dovrebbe avere, per definizione, un TONE OF VOICE sempre ecumenico,  aperto, capace di mettere da parte la presunzione, a favore di un piglio altamente inclusivo. Il video Aosta-Torino è una summa di arroganza, per quanto non priva di ironia, che non è di nessuna utilità per il raggiungimento dell’obiettivo.

È vero, anche la comunicazione d’impresa a volte pecca mettendo al centro il brand e non i bisogni del proprio cliente; ma è un errore in buona fede e che, di solito, non fa danni. La comunicazione politica invece continua a mettere al centro l’avversario, al posto dell’elettore/prosumer. 

IN SINTESI

Se Renzi avesse chiesto il supporto di un consulente di comunicazione di impresa italiano (noi avremmo chiamato ad esempio Annamaria Testa), invece di Jim Messina, cosa sarebbe successo:

– il progetto di riforma referendaria sarebbe stata semplificato e affrontato un pezzo alla volta, lasciando alla fine il tema più delicato, cioè il superamento del bicameralismo;

– il processo di costruzione del messaggio PROMESSA / REASON WHY / SUPPORTING EVIDENCE sarebbe stato semplificato e meglio focalizzato, e contemporaneamente rafforzato con fatti certi e incontestabili;

– il TONE OF VOICE avrebbe messo in primo piano il rispetto della persona, del cittadino, anche dell’avversario, affidando ai prosumer la responsabilità di una scelta, togliendola quindi al partito o al leader (come dovrebbe essere del resto, visto che la Costituzione è un bene di tutti).

Con questo approccio, il comunicatore d’impresa quali obiettivi avrebbe raggiunto?

– avrebbe portato a casa a mani basse 3/4 del progetto di riforma con percentuali bulgare, aumentando le possibilità di vincere anche sul tema più spinoso (superamento del bicameralismo) e – perché no – rafforzando il posizionamento in vista delle politiche, un intermezzo determinante nel piano quadriennale;

– avrebbe messo al riparo la leadership di Matteo Renzi dal rischio dimissioni, anche in caso di sconfitta;
 
– avrebbe infine risparmiato moltissimo sui costi di consulenza, ma si sa, soprattutto in Italia, nemo propheta in patria.

E per il futuro, abituiamoci all’idea che in tutti i discorsi di investitura e di dimissioni, comparirà sullo sfondo anche una commossa first lady, in puro stile yankee. Grazie Jim, l’idea collettiva della figura femminile aveva proprio bisogno di questo ulteriore contributo mediatico.

Infine, tornando al titolo di questo post, la comunicazione d’impresa può imparare qualcosa dalla comunicazione politica? La risposta è: certamente no; non per l’uso dei mezzi, non per la comunicazione in sé, ma più a monte, per la capacità distintiva delle imprese di mettere in primo piano e al centro il prosumer, cioè il loro cliente.

L’impresa riconosce maggiore considerazione al consumatore, di quanto la politica non faccia con il suo elettore. È una differenza macroscopica. Forse è ora che i partiti imparino a fare comunicazione d’impresa.

 


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