Il QUADRANTE DELL’UTOPIA ovvero l’ambientalismo, tra impegno, buone intenzioni, fake news e bias cognitivi
In questo post:
Il quadro sinottico di FOA | Nuova arcadia | Distruzione dell’Eden | Apocalittici e integrati | Il consumatore critico | Il quadrante dell’utopia | Ambientalismo e fake news
Tempo di lettura: 20′ | A cura di Aurelio Bauckneht
In questo post ci focalizzeremo sul lato sinistro del quadro sinottico di FOA, cioè sui due quadranti “apocalittici”, a rappresentanza dei cittadini che vivono il presente con un approccio critico al contesto sociale e, in particolare, all’agrifood. Una polarità quindi negativa, decostruttiva, che vede una mitigazione nella dimensione dell’arcadia e un’esasperazione nella dimensione della distruzione dell’Eden.
Leggi qui il post precedente: la presentazione del quadro sinottico di Focus On Agrifood.

I CONSUMATORI CRITICI, TRA RAZIONALITA’ ED EMOTIVITA’
Utile partire dal vocabolario Garzanti che firma questa definizione:
• apocalittico: si dice di tendenze artistiche, letterarie, filosofiche, o di loro singoli rappresentanti, che concepiscono la realtà come prossima a radicali sconvolgimenti e catastrofi.
Se “apocalittico” è un approccio o una tendenza filosofica, allora reputiamo opportuno abbinare il concetto di “pensiero critico”: al di là della colorita etichetta inventata da Umberto Eco, per quanto riguarda le culture di consumo dei quadranti in questione, è proprio sul pensiero critico che si sviluppa l’asse portante del sistema di valori oggetto di questa indagine.
Qualunque sia la definizione che vogliamo dare di pensiero critico come base dell’approccio apocalittico (qui un esempio, qui un altro), saremmo indotti a sottendere in questi consumatori una forte razionalità, un approccio deduttivo, un sistematico metodo analitico e socratico; eppure, nella realtà dei fatti, non sono questi i driver principali o, almeno, non sono certo gli unici. I due quadranti nascondono infatti una fortissima e malcelata carica emotiva: nell’animo dei consumatori critici crescono sentimenti di rabbia, desideri intestini di cambiamento – per non dire di rivoluzione -, istinti di aggressività, in una marmellata culturale dove navigano ben amalgamate mille ragioni e mille emozioni capaci di amplificarsi a vicenda, tra inquinamento, etica del lavoro, animalismo, sovra-esposizione mediatica, timori manipolatori, approcci DIY, complottismi, neo-luddismo, imperativi religiosi, salutismi reali, salutismi immaginari e così via. Ed è proprio qui – in questo caotico vortice in cui il consumatore intreccia razionalità e irrazionalità – che cova e si sviluppa una forza straordinaria capace di influenzare il mercato, di innescare un cambiamento, di innovarlo.

E’ ragionevole pensare che propri in questi due quadranti alberghi la culla di molti trend alimentari, oggi ampiamente sdoganati, ma completamente inimmaginabili venti o trent’anni fa. Pensiamo in primis allo straordinario ampliamento nel mondo della GDO della gamma dei cibi “senza” e dei cibi “con”, specchio di spinte culturali e commerciali nate in buona parte proprio nell’alveo delle nicchie di consumo afferenti al mondo che stiamo analizzando. Sono aspetti determinanti e impressionanti, soprattutto se si prova a ricordare qual era l’offerta della GDO prima degli anni 2000 e qual è quella di oggi, con un presente che racconta una quotidianità fatta di biologico, nutraceutica, grani antichi, veg, cibi esotici, gluten free e tanto altro, a fianco di una gastronomia tradizionale di altissima qualità certificata, ma anche – bisogna dirlo – vicino a junk food e prodotti altamente trasformati di dubbia caratura. Una “normalità” commerciale, almeno oggi possiamo definirla così, che è frutto in realtà di ricerca, sperimentazione, innovazione; una lunga strada percorsa dai consumatori critici, concretizzata da numerosi imprenditori agrifood avanguardisti e prolificata da una distribuzione che, almeno fino a poco tempo fa, poteva essere definita completamente “alternativa” all’offerta e alla filosofia commerciale della GDO.
Il motore che ha alimentato i nuovi scenari della distribuzione ha visto infatti una forte alleanza tra i consumatori critici e una vasta rete imprenditoriale disposta ad accollarsi tutti i rischi d’impresa connaturati ad un target composto prevalentemente da cosiddetti pionieri, cioè quella nicchia di consumatori-esploratori disposti a sostenere le aziende più orientate all’innovazione, riconoscendo generalmente un prezzo superiore e dando ampia disponibilità alla sperimentazione.
I GRANDI MERITI DELLA DISTRIBUZIONE ALTERNATIVA
Le numerose nicchie di consumatori che popolano i quattro quadranti hanno spinto il mercato verso un’offerta commerciale estremamente ricca, variegata, iper-competitiva e a tratti anche caotica. Le varie gamme di prodotto si sono ampliate all’inverosimile, sono cresciuti i contenuti e i fattori differenzianti, si sono moltiplicati i canali distributivi: dai mercati rionali ai farmer market, dalla vendita diretta ai gruppi d’acquisto solidali, dalla piccola bottega alla piccola distribuzione organizzata, dagli hard discount alla GDO di qualità, dal supermercato classico al modello Eataly, dallo scaffale all’e-commerce.

E’ un panorama certamente variegato, costruito anno dopo anno in una pluralità di contesti, capace di soddisfare le mille necessità differenti dei consumatori e pronto ad afferrare i vari driver della contemporaneità. In tutto questo, vogliamo sottolineare come la bussola dell’innovazione dell’agrifood risieda storicamente nei quadranti a sinistra del quadro sinottico, i quadranti che vedono protagonisti proprio i consumatori critici, i pionieri del mercato, e ovviamente gli imprenditori della produzione/distribuzione alternativa. Nella complessità della competitività, gli apocalittici hanno aperto numerose brecce, tracciato trend, modificato gli orientamenti, andando a contaminare anno dopo anno il consumo di massa. Come? Prima di tutto derubricando la questione “prezzo” dell’agrifood da necessità assoluta a normale fattore competitivo, mescolato in un mix di imperativi complesso e variegato. Un merito enorme, ma, come vedremo, non sufficiente per garantire alla distribuzione alternativa un mercato sicuro e duraturo. Il 2017 ha segnato infatti per la prima volta un calo del fatturato (-3%) dei negozi specializzati (fonte Nomisma – Italiafruit) e noi di FOA crediamo che questo sia solo l’inizio di una lunga e lenta crisi che vedrà favorire la GDO tradizionale.
La distribuzione alternativa, con il supporto dei consumatori critici, ha trovato la forza per sviluppare progetti imprenditoriali di tutto rispetto, in alcuni casi anche di risonanza internazionale, ma non è stata in grado di mettersi al riparo da tre rischi macroscopici:
1) Il vantaggio differenziante è stato progressivamente cannibalizzato dalla GDO; i canali tradizionali hanno studiato con attenzione questo mercato, si sono arricchiti dei contenuti e delle esperienze della distribuzione alternativa, allargando – e ci verrebbe da dire, migliorando – la propria offerta; la GDO ha copiato, depurato, razionalizzato e applicato, seppur con lentezza, i vari punti di forza “alternativi” aspettando con tutta calma la trasformazione dei pionieri in consumatori di massa, la mutazione delle nicchie in vero business. Nelle piccole catene del biologico, ad esempio, non si è mai posto il problema plastica (i sacchetti ecocompatibili, anche per il fresco, sono stati introdotti un decennio prima rispetto alle scelte della GDO e ai recenti obblighi di legge) e non è mai nato il problema dell’olio di palma. Sempre qui i detersivi a basso impatto non sono mai stati una novità, ma una normalità. Sempre qui i prodotti veg e quelli che ammiccano alla cucina orientale sono stati la norma fin dalle origini, così come le filiere equosolidali. Una lunga lista di contenuti pregnanti che la GDO tradizionale ha clonato, sapientemente e cautamente, con dieci o vent’anni di ritardo. La distribuzione alternativa ha quindi involontariamente trasmesso valore proprio al suo nemico naturale, la GDO, dando il via ad un cambiamento epocale che, paradossalmente, è diventato, anno dopo anno, sempre meno distintivo, sempre meno “alternativo” e sempre più “quotidiano”.
2) I negozi specializzati del bio hanno ampliato troppo la gamma; pur di scimmiottare l’ampia offerta della GDO, sono andati a sommare a tanti prodotti veramente eccellenti e differenzianti, una lunga lista di alimenti oltre i limiti dell’assurdo che inevitabilmente hanno ridotto e continuano a ridurre l’appeal del punto vendita (ci siamo imbattuti in imbevibili latte di mandorla biologici made in Spain, carote bio olandesi, vini naturali scadutissimi, prodotti a base soia bio dalla filiera estremamente globalizzata, furbeschi prodotti milk e meat sounding e tanto altro ancora…). Un problema probabilmente similare a quello del mondo equosolidale, filiera che ha abbandonato il focus sulle banane (e volendo su tutti i prodotti fortemente caratterizzanti delle tradizioni agricole dell’emisfero sud), a favore di una gamma ampia e variegata, anche no food. La tentazione di ampliare le linee, sotto lo stesso cappello, sotto lo stesso brand, è sempre dietro l’angolo, sempre ammaliatrice, ma le leggi del marketing parlano chiaro: le estensioni di linea sono sempre pericolosissime.
3) Tutta la comunicazione del biologico e dell’equosolidale è sempre stata basata sull’inversione della “promessa” con le “reason why/supporting evidence”; da compralo perché “ti garantisco un’eccellenza con un vero vantaggio differenziante, comprovato da un ente terzo” a compralo perché è “certificato biologico” (non ci dilunghiamo su questo aspetto molto sottile, ma è certamente un tema da riprendere).
Tre problemi di marketing strategico che ci lasciano pronosticare, come anticipato, un futuro non proprio roseo per le piccole realtà specializzate (che in realtà sono sempre meno focalizzate), così come per le medie catene del bio, in vista del completamento della cannibalizzazione da parte della GDO tradizionale, sempre più orientata verso un mix di convenzionale-bio-solidale ben strutturato, con una gamma via via più articolata e ricca di valori.
I VALORI DI RIFERIMENTO: UN PERIMETRO CULTURALE BEN DEFINITO

L’intellighenzia apocalittica dell’agrifood è solita richiamare vari numi tutelari: ad esempio Thoureau, Tolstoj e Gandhi, fino al situazionismo francese e ai suoi détournement, in supporto ad autori contemporanei come Lasn, Latouche, Klein, Pallante. Il pensiero critico vanta delle fondamenta culturali gigantesche e si confronta con un quotidiano ricco di contraddizioni con il quale è effettivamente possibile, per non dire necessario, intrecciare un legame.
Parallelamente esiste una vasta letteratura scientifica “ambientalista” che aggiunge al pensiero critico nessi di casualità con cui la società deve fare i conti; emblematici alcuni casi che hanno animato gli anni ’70 e ’80, in particolare citiamo la questione delle piogge acide, del buco dell’ozono (Protocollo di Montreal 1987) e del nucleare (Cernobyl 1986), fenomeni che – seppur oggi probabilmente poco noti ai millenials – hanno contribuito con la loro gravità a consolidare una solida coscienza ecologista verso quel cambiamento che prenderà avvio con più concretezza nei primi anni ’90. Anche qui infatti vanno cercate le origini delle idee che un po’ alla volta hanno indotto le nuove scelte di acquisto del consumatore che stiamo cercando di delineare. Un filo rosso che ci porta ovviamente fino ai giorni nostri, con una agenda setting ambientalista che oggi pone in primo piano la sostituzione dei combustibili fossili, la questione delle micro plastiche, fino ad arrivare ai fantomatici “pesticidi”. Un puzzle di per sé già molto ricco di pezzi e che recentemente si è arricchito ulteriormente di nuove tensioni etiche legate alla correlazione emblematica tra migrazione e sfruttamento della manodopera.
Tutto questo si riversa nell’agrifood, da un livello macro, sistemico, al quotidiano di ogni famiglia, fino all’immaginario e alla coscienza dei singoli. Dall’imperativo ghandiano sull’auto-produzione di cibo allo sviluppo della ritrovata cultura contemporanea del pane fatto in casa, della pasta madre, della ritualità di una pizza impastata in famiglia, il passo non è poi così lungo. Come non è lungo quello che porta verso la scoperta di una cucina di stampo orientale (e non ci riferiamo al sushi), verso la rigenerante gioia di possedere un orto (anche nella dimensione urbana dell’orto di quartiere) e ancora verso scelte di consumo più radicali come il veganesimo o il biodinamico.
Nel territorio apocalittico potremmo quindi delineare un perimetro culturale, etico e scientifico molto solido, di per sé sufficiente per spiegare la forza del cambiamento che stiamo analizzando, con delle coordinate temporali abbastanza chiare. Ma, purtroppo, non è tutto qui e sarebbe fortemente ingenuo pensare il contrario. E’ necessario infatti considerare l’altra faccia della medaglia e cioè l’alto livello di emotività che proprio sulle praterie dell’ambientalismo, mette quotidianamente al pascolo quello che nessuno vorrebbe mai vedere: estremizzazioni, mode, fake news, terrorismo mediatico, superficialità, giornalismo sciatto, abuso dei social e, in ultima istanza, semplicismo e ignoranza. Ingredienti che portano caos commerciale nel mercato e confusione nei consumatori, andando a celare i comuni denominatori delle varie culture di consumo e amplificandone invece le differenze; un fattore decisamente asfittico che toglie valore al consumatore critico e che frena il progresso del sistema verso l’eccellenza.
I VALORI DI RIFERIMENTO: IL CONSUMATORE CRITICO
Nel quadrante Apocalittici / Arcadia cresce, come abbiamo visto, un approccio critico, spesso radicale ed emotivo, ma comunque proattivo. Biologico, stagionalità, km zero e più in generale il salutismo sono solo il punto di partenza di un approccio che può sfociare ben oltre, ad esempio verso scelte di consumo come il biodinamico, tecnica agricola dal sapore misticheggiante che sarebbe più opportuno definire culturale piuttosto che meramente colturale.
Importante la spinta verso una riduzione del consumo di carne e derivati – qui la scelta vegetariana è giudicata molto positivamente -; una forte attenzione al packaging intelligente o ancora meglio al prodotto sfuso; una chiara chiusura verso il sistema dei mass media e una idea estremamente negativa del marketing; una sincera attrazione per la dimensione della piccola azienda agricola locale a conduzione familiare o della cooperativa, ma a patto che sia tutto gestito nel perimetro della legalità e del rispetto delle risorse umane, in particolare se previsto l’utilizzo di lavoratori stagionali. Il desiderio è conoscere tutto, dalla varietà della semente al nome dell’agricoltore, fino al processo di trasformazione, per arrivare a premiare con l’acquisto le varie filiere agricole – e anche quelle no food – capaci di presentarsi in maniera radicalmente diversa rispetto ai brand globali dell’agrifood anni ’80.
Abbiamo sintetizzato in questa tabella le dimensioni di riferimento; sono questi i valori che giustificano un costo maggiore del prodotto a scaffale, ricercati e riconosciuti dal consumatore apocalittico:
DIMENSIONE SALUTISTICA (il cibo del benessere, dal biologico alla riscoperta dei cereali integrali, dai nuovi alimenti di ispirazione orientale al vegetarianesimo) |
DIMENSIONE AMBIENTALE (il cibo con una ridotta impronta ecologica; produzioni che richiedono poca acqua, poco suolo, pochi input e che favoriscono la biodiversità) |
DIMENSIONE SPAZIALE (il cibo a km zero riduce i trasporti e riporta un po’ di buon senso e normalità; ad esempio perché non finirla con i pomodori esteri?) |
DIMENSIONE TEMPORALE (la riscoperta della stagionalità; il rispetto dei ritmi della natura riduce l’impatto delle produzioni e permette di limitare alcune forzature del mercato) |
DIMENSIONE AZIENDALE (preferenza per le piccole realtà, a conduzione familiare o piccole coop; cambia il paradigma degli anni ’80, il piccolo diventa sinonimo di qualità) |
DIMENSIONE ETICA (la gestione aziendale deve essere etica anche a livello amministrativo; in primissimo piano anche la gestione delle risorse umane) |
DIMENSIONE SOCIALE (dall’imprenditoria femminile alle fattorie sociali, fino alle piccole cooperative: l’azienda deve avere un approccio moderno e inclusivo, aperto alle diversità e alle disabilità) |
DIMENSIONE ECONOMICA (gli agricoltori hanno diritto ad un giusto reddito; la catena del valore è troppo sbilanciata, il valore deve essere ridistribuito meglio) |
DIMENSIONE ARTIGIANALE (il neo-luddismo riscopre gli operatori che usano le proprie mani, dai cosiddetti makers agli agricoltori che lavorano i campi con attrezzature a trazione animale) |
DIMENSIONE TRASPARENZA (tutta la filiera deve essere organizzata all’insegna della trasparenza, fino alla pubblicazione del cosiddetto prezzo-sorgente) |
DIMENSIONE COMMERCIALE (riscoperta del piccolo negozio di quartiere, dei mercati rionali, dei gas, preferenze per canali alternativi alla GDO capaci di garantire il giusto reddito all’agricoltore) |
DIMENSIONE MARKETING (preferenze per il packaging minimale ed ecologico; viene apprezzata maggiormente la comunicazione improntata sui contenuti e non sulla creatività) |
I VALORI DI RIFERIMENTO: IL TEMA DEL LAVORO E DELLO SFRUTTAMENTO DELLA MANODOPERA
La sostenibilità, una delle parole chiave di riferimento del consumatore critico, viene declinata a vari livelli, non solo quindi negli aspetti di carattere prettamente ambientale. La sostenibilità può essere economica (ad esempio il rispetto del giusto guadagno dell’agricoltore) e, sempre più, deve essere anche etica, e più precisamente legata all’etica del lavoro.
Sono recentissime le polemiche suscitate dalla modalità di acquisto all’ingrosso denominata “asta al doppio ribasso” attuata da una grande catena italiana. Così come sono recenti i gravissimi incidenti stradali dell’estate 2018 che hanno coinvolto decine di migranti nel corso della campagna di raccolta del pomodoro nel sud Italia, ultimi episodi di una triste e lunga cronaca di sfruttamento che ha intaccato pesantemente l’immagine dell’agrifood italiano.
Oggi il consumatore critico richiede la certezza che le sue scelte d’acquisto non vadano ad alimentare filiere sporche basate sullo sfruttamento della manodopera. E per fare questo è disposto a riconoscere un valore, un prezzo d’acquisto premiante, diverso da quello di riferimento dell’hard discount. Questa scelta, questo orientamento commerciale, non è solo una presa di posizione etica, chiaramente condivisibile al di là di ogni discussione, ma è anche il frutto di una riflessione più ampia, su tutta la filiera, dal campo allo scaffale, che coinvolge le relazioni sociali al livello più alto, cioè quello umano, con una forte attenzione sulla figura del migrante. Il consumatore critico è stato il primo a comprendere il nesso tra “primo prezzo” e “sfruttamento”; un legame ovvio, ma non così tanto, soprattutto quando l’acquirente di fronte alla gondola del supermercato deve scegliere il prodotto da mettere nel carrello, in una pluralità di brand, confezioni, promozioni e soluzioni tra le quali, inevitabilmente, il più economico spicca sempre con la sua convenienza tentatrice. Quindi da una parte il rispetto del lavoratore, dell’essere umano, come obiettivo primario; dall’altra, la consapevolezza che l’asfissiante rincorsa del prezzo più basso – creato dall’alleanza tra certa GDO e i consumatori più indifferenti – è il vero motore che alimenta un sistema ingiusto e perverso di sfruttamento. E’ evidente che molti consumatori critici vedono nei buyer della GDO più aggressiva e nei caporali di campagna, nient’altro che due facce della stessa medaglia.

L’agrifood del made in Italy non può sopportare questa situazione e deve velocemente correre ai ripari. Ma ovviamente la produzione agricola e in particolare la filiera del pomodoro non possono e non devono essere ridotte a semplicistiche generalizzazioni. Le grandi filiere del pomodoro del nord Italia, create da imprese e realtà cooperative molto strutturate, sono frutto di un sistema industriale avanzato che non ha nulla a che fare con fenomeni come il caporalato e che anzi, grazie a specifici processi d’eccellenza aziendale, si presentano sul mercato con due grandi punti di forza, altamente distintivi:
– la meccanizzazione avanzata di tutte le fasi del ciclo colturale genera un ciclo produttivo che non richiede mera manodopera non qualificata, ma un limitato numero di operatori altamente formati nell’uso di moderne attrezzature agricole;
– la vicinanza dei luoghi di coltivazione del pomodoro allo stabilimento di lavorazione è molto contenuta, in molti casi iscrivibile in un raggio di appena 100-200 km.
Il pomodoro etico e a km zero esiste già, in ogni supermercato, in Italia e nel mondo, ed è quello proposto da brand italiani rinomati a livello globale. Passate e polpe frutto di modelli aziendali virtuosi che hanno contribuito fortemente alla creazione e all’esportazione del mito del made in Italy, possibili proprio grazie alle dimensioni aziendali, ben lontane dal mito arcadico del “piccolo è bello” o tipo “l’artigianale è cool”. Anzi, l’esatto contrario. Economie di scala e tecnologie agricole sono gli asset di un pomodoro economico, salubre, buono e pulito, ma che inevitabilmente potrebbe non piacere al consumatore critico di ispirazione neo-luddista.
Quel che è certo, è che l’agricoltura più avanzata, più moderna, riduce – grazie alla meccanizzazione e alla robotizzazione dei processi – il numero di addetti non qualificati, a favore di addetti esperti e altamente formati. Un driver a forte crescita, supportato da modelli imprenditoriali molto lungimiranti.
Nel mentre non si può che auspicare un ulteriore sviluppo della normativa anti-caporalato, introdotta solo nel 2011 e via via raffinata negli anni successivi. A chi volesse approfondire ulteriormente il tema, segnaliamo il dossier Cibo&Migrazioni, a cura della Fondazione Barilla Center for Food & Nutrition (BCFN).
Pubblichiamo quindi un estratto dal report BCFN:
Secondo l’attivista Yvan Sagnet, “in un certo senso anche gli agricoltori e gli imprenditori agricoli sono delle vittime. Se non vuoi chiudere bottega, sei costretto a ricorrere allo sfruttamento. È un sistema perverso, perché è l’acquirente a imporre il prezzo. Ma i prezzi sono insostenibili, e i piccoli agricoltori non hanno la forza di resistere. All’apice della piramide troviamo alcune imprese della grande distribuzione, che si tengono ben lontane dalla terra dei campi, e che sono le vere beneficiarie dell’ultra-liberalizzazione
delle filiere alimentari”.
VERSO L’INVERSIONE MEZZI-FINI
Il quadro valoriale del consumatore critico appare, come abbiamo visto, solido e ben strutturato; una cultura del consumo agroalimentare ricca di contenuti, basata in sostanza su una serie di “regole” che l’azienda produttrice deve rispettare. Lo scontrino diventa lo strumento più efficace per premiare le aziende virtuose e, in alternativa, il non acquisto assume il significato di un cartellino rosso estratto dal taschino per punire quelle meno etiche. Ma questi giudizi, queste scelte, sono sempre fondati e giustificabili?
L’applicazione delle regole, o meglio la definizione di un giudizio sulle produzioni agrifood, presuppone delle conoscenze che spesso il consumatore non possiede. Ma non solo. Nel vortice dell’emotività e sulla superficialità dell’informazione, è possibile che nella mente umana le regole mutino pelle per andare a trasformarsi in verità ontologiche e acritiche. Sono cortocircuiti, molto comuni, che generano loop mentali senza uscita, riconducibili primariamente alla nota trappola sociologica denominata “inversione mezzi-fini”. Lo scontrino alla cassa, le scelte di consumo, sono effettivamente dei mezzi, delle armi che il consumatore ha in mano per indirizzare la gamma prodotti di una azienda, ma man mano che cresce l’attribuzione di significato, la visione del consumatore tende a solidificarsi verso prese di posizione di stampo manicheo che difficilmente possono essere rimesse in discussione. Un percorso che viene progressivamente estremizzato, portando l’approccio critico-apocalittico all’agrifood verso contorni semi-religiosi e sappiamo bene che in ogni religione che si rispetti, non mancano mai gli eccessi dai toni inquisitori. Proprio qui, il biologico da mero “mezzo” tecnico-colturale a basso impatto, diventa un “fine” che giustifica produzioni di qualità e di sostenibilità molto dubbia. Ed ecco quindi la crescita di “nicchie nelle nicchie” e mode alimentari assai discutibili: dal biologico globalizzato che commercializza derrate alimentari che poco hanno a che fare con il km zero, alle filiere come quella della soia lavorata e triangolata tra i vari continenti, fino ai nuovi prodotti milk sounding dalle scarse proprietà nutritive, per arrivare al consumo di prodotti gluten free in diete che non necessitano di questi prodotti.

Decisamente significativo in questo percorso di inversione concettuale, l’approccio giudicante dei vegani più radicali: negli ultimi anni abbiamo assistito ad un po’ di tutto, da comunicazioni di dubbio gusto alla pura e semplice delinquenza, come ben testimoniano i danneggiamenti di numerosi punti vendita (macellerie e similari) segnalati in vari Paesi del mondo.
LA DISTRUZIONE DELL’EDEN
Nel quadrante Apocalittici / Distruzione Eden la percezione dominante è quella di una società oramai orientata all’autodistruzione. Il giudizio nei confronti dell’altro è sempre netto e caustico. Il desiderio è uscire dalla comunità, ritirarsi e aspettare una fine ineluttabile. Un desiderio alla Decameron, una fuga su colline bucoliche – in attesa che la peste faccia piazza pulita giù in città – in cui l’auto-produzione di cibo prende il posto della convivialità e della sensualità raccontata da Boccaccio. Accidia e pessimismo viaggiano verso un radicalismo estremo. Per questa tipologia di consumatore il picco del petrolio è sempre dietro l’angolo e le vetture più innovative, ad esempio, hanno comunque un bilancio energetico negativo. Il biologico non è più soddisfacente. Il mondo insomma è molto kattiven e internet è lo spazio dove combattere tutto questo a colpi di mailing list. Ovviamente qui i social network sono demodé, buoni per gli adolescenti e i radical-chic, e le grandi corporation sono il nuovo grande fratello. I bias cognitivi in questi consumatori generano veri e propri muri che ostacolano il confronto e quindi, inevitabilmente, il complottismo diventa la regola. Anche di fronte ad evidenze scientifiche contraddittorie, la reazione è tendenzialmente a-critica, cioè l’esatto contrario del pensiero critico.
Non dimenticheremo mai un confronto con un viticoltore del biologico sull’uso del rame come fungicida, durante il quale ci riferì che tutte le perplessità della comunità scientifica su questo elemento base della tecnica colturale bio (fattore critico che nel breve-medio periodo potrebbe incrinare tutto il settore), siano dovute in realtà alle grandi attività manipolatorie delle multinazionali dei fitofarmaci per spingere la vendita dei prodotti tradizionali. Il pensiero critico, chiaramente, in questo caso era andato in vacanza…
PENSIERO CRITICO E BIAS COGNITIVI
Il pensiero critico e più in specifico l’ambientalismo dovrebbero essere degli imperativi categorici di base; questi capisaldi sono, al di là di ogni dubbio, un prezioso patrimonio culturale, filosofico e pratico dell’agire umano. Ma è proprio il fattore umano, con le sue potenze e le sue debolezze, che indebolisce questo modello di pensiero. Sotto questo ampio cappello agiscono infatti milioni di cittadini-consumatori con specifiche abitudini di consumo e con forti capacità politiche “dal basso”, ma anche con variegate personalità, atteggiamenti e – con buona pace del pensiero critico – preconcetti. Qui infatti si inseriscono quei fattori, svariati e incontenibili, che portano una parte dei sostenitori dell’ambientalismo a banalizzarne il valore, cadendo in un ecologismo di superficie, inutilmente distruttivo, paranoide, che a ruota prende corpo in una rumorosa comunicazione di bassissimo livello, sempre pronta a colorire discussioni informali, chiacchiere, ma anche mailing list e pagine web.
Dobbiamo veramente tirare in ballo Thoureau quando l’immaginario animalista e ambientalista scolpisce nel marmo affermazioni come “il latte fa male” o “la carne fa venire il cancro”? In un’epoca in cui l’informazione – che sia veramente falsa o falsamente vera – riesce a correre alla velocità della luce in tutto il globo, a questa relazione tra pensiero ed emotività è proprio difficile sfuggire. E tutti gli operatori del settore, nolenti o dolenti, devono tenerla in considerazione. Il tempo della riflessione è minimo; tutto diventa un gioco di reazioni istintive. Anche le menti più colte, intelligenti e brillanti, possono banalizzare il pensiero critico con sciocchezze catastrofiche e, in tutto questo, l’agrifood è sempre la vittima sacrificale preferita. Nessuno è immune. Nessuno può dirsi realmente al riparo dagli scherzi della mente e determinati fenomeni come i bias cognitivi, ad esempio, sempre dietro l’angolo. Ma perché l’agrifood è sempre in cima alla lista delle lamentele di stampo apocalittico? E perché questo scontro si consuma, ahinoi, sulle lame della superficialità? La risposta è, in realtà, relativamente semplice: il pensiero razionale, e in questo caso il pensiero critico, comporta uno sforzo cognitivo troppo elevato; l’essere umano tende a semplificare, a parteggiare con un piglio sportivo per assimilare sicurezza e senso del gruppo; in particolare il cittadino urbanizzato alleggerisce il proprio stato emotivo attaccando più facilmente le attività lontane dalla propria vita, proprio come l’agricoltura, garantendo allo stesso tempo una tollerante indulgenza al proprio vissuto personale e alla propria attività professionale. Da qui, le varie contraddizioni di tanti ambientalismi e di tanti ambientalisti: sì al gasolio, no ai funghicidi; sì al tabacco, no al glifosate; sì agli smartphone, no ai grani moderni; sì ai trattamenti contro le zanzare, no ai trattamenti contro la cimice asiatica; sì ai lupi in montagna, no agli insetti sul balcone di casa; sì ai brand della moda, no a quelli dell’agrifood; sì alla castrazione/sterilizzazione del cane/gatto di casa, no all’inseminazione artificiale delle vacche da latte (nda: questa è di gran lunga la nostra preferita); sì all’antibiotico per la prima tossetta, no agli antibiotici negli allevamenti… e così via. L’essere umano ama scegliere una fazione e tende a giudicare l’altro, ma mai se stesso, e questo strano conflitto tra razionalità e irrazionalità ci allontana sistematicamente da una vera e compiuta ecologia della mente.
Nella mente umana logica ed emotività concorrono alla creazione delle idee e come le colonne delle facciate di un tempio greco, questi pilastri sorreggono un timpano che è il contenitore della saggezza individuale; qui si plasma il sistema valoriale dell’essere umano, a volte con il rigore dell’architettura, a volte con la plasticità dell’assurdo e del surreale. Il tempo della riflessione ci avvicina ovviamente alla solidità, mentre l’istintività corre al ritmo di una velocità fluida, ondivaga. L’agrifood che per definizione dovrebbe essere strettamente collegato ad un ponderato ecologismo dal taglio scientifico, medicale e socio-economico, nuota invece nei subitanei marosi del caos popolare.
IL CIBO DELL’UTOPIA E LA DISGREGAZIONE DEI VALORI
Nella nostra società, così liquida e mutaforme, le certezze della vita sono sempre destinate a sgretolarsi in un mare di contraddizioni; l’adolescenza delle convinzioni col tempo si annacqua nella praticità della maturità e anche il consumatore critico più radicale non può che ritrovarsi in una serie di vicoli ciechi concettuali che tendono, paradossalmente, a trasformare il pensiero critico in a-critico.
Guardiamo ad esempio il mito dell’artigianalità, della piccola azienda detentrice del vero cibo sano, a confronto con le malvagie strutture delle multinazionali; sostanzialmente una bufala, una fake news, che spesso si traduce in pura e semplice mancanza di professionalità, con buona pace del cibo “buono e giusto”, a volte con esiti drammatici come ben insegna il caso della fattoria biologica di Klaus Verbeck di Amburgo; 50 vittime e 4.174 ricoveri grazie ai suoi germogli di soia ecosostenibile contaminati da Escherichia coli.
L’approccio a-critico al biologico nella sua inversione mezzi-fini è, non a caso, uno dei temi più dibattuti e divisivi tra gli addetti del settore: in molti esperti del comparto primario vive il pensiero che il consumatore apocalittico non si approcci al bio con scelte ragionate e ponderate, ma anzi con una certa superficialità, anticamera del pregiudizio e di uno sciocco manicheismo. Prende corpo, in sintesi, un’immagine sostanzialmente negativa del consumatore apocalittico, troppo focalizzato sul “fine” e incurante dei limiti del “mezzo”, cioè un bio artefatto da un sistema di certificazione lacunoso; frenato dal rame, elemento chimico altamente impattante ma essenziale; tarpato da una scarsa produttività che impone un maggior consumo di terra e un reale impatto totale per “unità di prodotto realizzato” tutto da verificare; macchiato dai numerosi ritiri dal mercato di prodotti bio contaminati da micotossine; infangato dalle innumerevoli truffe del finto biologico, così tante da non poterne tenere il conto.
E’ lecito quindi chiedersi cos’è realmente il cibo che soddisfa le altissime richieste del consumatore apocalittico; probabilmente un’utopia che – spesso stupidamente – arriva a mettere in cattiva luce anche chi si propone correttamente sul mercato pur non andando a soddisfare completamente le dimensioni valoriali che abbiamo elencato, come ad esempio le tantissime produzioni d’eccellenza del convenzionale, frutto di filiere strutturate e consolidate nel tempo, di altissima qualità, caratterizzate magari da una encomiabile impronta ecologica.
IL SACRO GRAAL DELLA SOSTENIBILITA’

L’ambientalismo come leva fortemente inserita nel tessuto sociale, capace di generare un cambiamento positivo, si mischia così ad una banalità confusa, un collage di buone intenzioni e fake news che spesso va ad avvitare ideali e principi di valore in un viluppo di sciocchezze, generando grande ilarità negli esperti di settore. Un lato della medaglia che, inevitabilmente, porta discredito su tutto ciò che è “ecologia”. Purtroppo.
Il pensiero ecologista, pertanto, viene percepito sempre più come estremamente naif: uno spazio culturale dove il confronto scientifico lascia il posto ad un approccio da stadio con un tifo che è prima di tutto indignazione digitale, caratterizzato da comunicazioni decisamente esasperate nei toni e, quasi sempre, confezionate malamente.
Inutile dire che una certa politica e un’ampia fetta del giornalismo generalista sguazzano in tutto questo esasperando questi circoli viziosi – con grande godimento commerciale – per alimentare i torrenti, a volte gli tsunami, dei luoghi comuni.

Il consumatore-ambientalista ne diventa vittima suo malgrado e non può che raccogliere, analizzare e giudicare (e successivamente comprare) quello che trova nel marasma sociale, in uno scenario comprensibilmente confuso e complicato. Ma il giudizio è un processo mentale che, quando non supportato da una architettura di contenuti rigorosa e puntuale, tende a scricchiolare rumorosamente. Sarebbe opportuno abbracciare il pensiero debole piuttosto che il pensiero critico, in un sistema di valori in cui la verità dell’agrifood e il sacro graal della sostenibilità perfetta, sostanzialmente, non esistono.
Emblematico in questo senso la grande differenza che intercorre tra i movimenti di opinione che hanno sostenuto la campagna per l’abolizione dei prodotti fitosanitari denominati neonicotinoidi (incriminati come responsabili dell’aumento del tasso di mortalità degli insetti impollinatori) e la campagna, più nota, StopGlifosato. Con la campagna “a supporto delle api”, si è vista una positiva convergenza tra produttori (apicoltori), coordinamenti internazionali come BeeLife, organismi pubblici (in particolare EFSA – European Food Safety Authority), varie Università, grandi associazioni (da Greenpeace a Slow Food) e una sostanziale convergenza del mondo agricolo, con la prevedibile eccezione di alcune aziende chimiche. Seppur stimolata dal colorito pungolo di Greenpeace, la nostra impressione è che la campagna si sia sempre mantenuta ad un livello alto di comunicazione grazie al supporto professionale dei vari attori coinvolti. Un tone of voice completamente diverso rispetto alle numerose campane che alimentano l’azione StopGlifosate. In una società in cui il diesel, l’alcol, il tabacco (e pare anche la canapa) sono accettati e permettono importanti accise, molti cittadini hanno preso di mira il Glifosate, con tanto di marce, siti web, petizioni e via dicendo, con un fare accusatorio estremamente radicale e, almeno a nostro parere, completamente a-critico. Chissà come, proprio nell’anno del diesel-gate, il glifosate è diventato il tema numero uno della comunità apocalittica. A volte viene voglia anche a noi di immaginare sovrastrutture manipolatorie capaci di orientare l’intestino popolare…
UNA MAPPA PER ORIENTARSI
Quindi cosa deve fare l’operatore del settore agrifood in questo scenario a complessità crescente? Noi di FOCUS ON AGRIFOOD non possiamo che ribadire ciò che si insegna in ogni corso di marketing minimamente aggiornato:
– essere se stessi al massimo livello di etica possibile
– mantenersi ancorati ai propri vantaggi differenzianti, rifuggendo le sirene degli ampliamenti di gamma (a meno di non creare nuovi brand positioning ad hoc)
– focalizzare la propria offerta in specifiche categorie di consumo aumentando l’expertise differenziante
– introdurre e comunicare esclusivamente i contenuti certificati (supporting evidence), rifuggendo dalla fuffa e dai contenuti non differenzianti e non dimostrabili
– comunicare le certificazioni bio e similari come supporting evidence e non come “promessa”, evitando l’inversione mezzi-fini
– smontare le fake news ma allo stesso tempo cercare di accogliere le istanze più solide e ragionevoli richieste dal consumatore, cercando di convergere verso il centro del quadro sinottico
– valorizzare al massimo le referenze della clientela (ancora supporting evidence)
– impostare sempre il dialogo con il consumatore nell’ottica della serietà e dell’esattezza, dando massimo risalto alle cosiddette reason why e, se non fosse ancora chiaro, alle supporting evidence
– anche negli scenari più critici a livello mediatico, evitare inutili contrapposizioni ed approcci retorici, mantenendo la calma e perseguendo sempre l’imperativo calviniano dell’esattezza
– orientarsi verso il modello delle TOTAL FARM che abbiamo descritto qui
Il centro del quadrante, in medium stat virtus, è un punto di riferimento equilibrato, ma solo nel presente. Reputiamo ancora più interessante guardare ai millenial, una generazione straordinaria che se saprà realmente credere in sé stessa e in un futuro migliore rispetto al presente ereditato dai baby boomer, avrà l’opportunità di cancellare dalla sociologia la differenza tra apocalittici e integrati. Siamo convinti che i consumatori del nuovo millennio, una volta completato il ricambio generazionale con i loro predecessori, avranno la reale opportunità di ridisegnare la relazione tra le persone e la produzione del cibo, portandoci sostanzialmente verso un futuro migliore, più equilibrato.
APPENDICE 1: articoli da leggere per abbattere i bias cognitivi
Sulla carne
Carni Sostenibili: 5 risposte ai nuovi attacchi alle carni
Georgofili: Il problema di informare il consumatore e comunicare la scienza
Sulle aste al doppio ribasso
FruitBookMagazine: aste online al doppio ribasso
Internazionale: I discount mettono all’asta l’agricoltura italiana
Dai “pesticidi” al rame in agricoltura biologica
Agrarian Sciences: pesticidi e richio cancro
Freshplaza: Possibili restrizioni all’uso dei fitosanitari a base di sali di rame nella UE
Sul Glifosate
Grazie al glifosato oggi si inquina molto meno di 30 anni fa
Sull’uso dei lieviti selezionati
Chi dà il gusto al vino?
Un interessante punto di vista sull’ecologia
The Vision: Per essere ecologisti dobbiamo fare a meno della natura
The Vision: I prodotti senza sostanze chimiche non esistono
The Vision: L’ossessione al “mangiare sano” è un disturbo mentale
APPENDICE 2: dai bias-cognitivi al piccolo mondo antico: le trappole mentali che minano la razionalità del consumatore
L’ambientalismo “dal basso” spesso e volentieri innesca una comunicazione povera, superficiale, controproducente, e le ragioni sono riconducibili a trappole mentali note. Ai classici bias cognitivi, aggiungiamo in appendice dei comportamenti ricorrenti conditi con qualche aneddoto di vita vissuta.
Il piccolo mondo antico: l’arcadia che non è mai esistita
E’ il fascino di un piccolo mondo antico, di una idea di arcadia in realtà mai esistita compiutamente, di una agricoltura “come quella dei nonni”, dimenticando inconsciamente che in quello spaccato di novecento per la popolazione c’era la fame, la fame vera. Il presente è giudicato negativamente; alle spalle si mira con nostalgia ad una certa età dell’oro, da rimpiangere, ma mai compiutamente messa a fuoco, un’arcadia che in realtà non è mai esistita.
La solidarietà generazionale e l’età dell’oro inesistente
Ne parla David Coupland in Generazione X. Un fenomeno riscontrabile in ogni epoca, in ogni letteratura, in ogni storia. Cioè la tendenza a giudicare, sempre più, man mano che aumenta l’età anagrafica, come imbelle la generazione successiva. Ah ai miei tempi, sì che ci si impegnava, sì che si faceva una agricoltura vera… un disco rotto che continua, mai modificato, secolo dopo secolo. La solidarietà generazionale è un’altra brutta trappola che ci porta a giudicare il presente, pericolosa soprattutto se abbinata al mito del piccolo mondo antico. Se l’oggi è un disastro, quale sarebbe l’età dell’oro in cui le cose andavano bene? La domanda è significativa soprattutto nel comparto agricolo dove il ritorno al passato non trova alcuna meta raggiungibile. Prima dell’oggi, prima della rivoluzione verde, cosa c’era? Tre le risposte possibili: fame, fame e ancora fame. E abbondanza di micotossine, aggiungiamo.
Il terrore della manipolazione e una scarsa fiducia nel libero arbitrio dell’essere umano

Sempre da Culture Jam: “Ma che determinati prodotti siano ovunque significa anche che essi in realtà non sono in nessun luogo. La gente non ci fa più caso. Così come non fa caso quando certi marchi compaiono nei romanzi o nei testi delle canzoni. Il fatto è che spesso più le creazioni di fantasia sono ancorate al mondo reale, più sembrano convincenti. Un personaggio che beve una Miller è più credibile di uno che tiene in mano una generica lattina di “birra”. Questo significa che ci lasciamo manipolare con estrema facilità. Determinati segnali commerciali ci stregano senza che nemmeno ce ne rendiamo conto, come succede con le risate registrate. Con il tempo abbiamo finito per assimilare questi fenomeni e – almeno sul piano conscio – a disconoscerli. Abbiamo, in altri termini, rinunciato al nostro controllo mentale.”
Il terrore generato dalle grandi corporation e dal marketing è sempre vivo; il consumatore è manipolato dalla pubblicità subliminale e non ha libertà di scelta. Il suo libero arbitrio è nullo. L’unica nicchia che si eleva da questa massa, capace di prendere scelte corrette – in virtù di una certa superiorità culturale – è chiaramente quella apocalittica.
Il giudizio lontano da noi stessi e l’incapacità di fissare le priorità dell’esistete
E’ nella natura dell’essere umano giudicare l’altro e non se stessi. Identificare una causa molto lontana dalla propria vita personale e abbracciarla. Aggredire i propri stili di vita comporta uno sforzo cognitivo troppo forte; meglio aggredire qualcosa lontano da noi; meglio sfogarsi con qualcosa che non ha a che fare con il nostro lavoro o più in generale con il nostro quotidiano. L’agricoltura è quindi il target perfetto per il cittadino urbanizzato che, pur non avendo mai preso una zappa in mano in tutta la propria vita, ne diventa improvvisamente esperto. E’ l’esempio del cittadino tabagista che si appassiona al tema glifosate, o del tabagista vegano. Un particolare trick del cervello accetta un’abbondante assunzione di un cancerogeno certo (il tabacco), ma non accetta un diserbante (facciamo l’esempio del glifosate) o un alimento particolare (la carne). Le certezze negative a noi vicine vengono accettate con indulgenza. Le incertezze degli altri possono essere aggredite senza pietà. Non fumate? Servono altri esempi? Il cittadino che acquista un’auto diesel (la metà del parco circolante) e che riconosce a se stesso il diritto di inquinare con un cancerogeno certo (particolato del gasolio) pur di avere un beneficio economico, senza riconoscere lo stesso diritto ad altre persone o ad altri comparti produttivi.
La comunicazione povera
Confezionare contenuti di qualità, precisi e ben organizzati, richiede tempo e risorse cognitive. L’urgenza di comunicare è stritolata dalla “razionalità limitata” di ognuno di noi. Ecco allora la comunicazione povera. Povera di contenuti, povera di senso, povera di valore. Ma comunicativa nei toni, spesso esasperati, e nella banalizzazione del lessico. E’ il caso del cittadino che usa impropriamente – o furbescamente – la parola pesticida, giocando sull’assonanza con la peste; peccato che “pest” voglia dire semplicemente insetto e che quindi pesticida non sia altro che una pessima e volgare traduzione di pesticide, completamente inappropriata. Più corretto quindi prodotto fitosanitario, agrofarmaco o ancora fitofarmaco. E questo è un fatto semantico che vale a prescindere da qualunque tipo di valutazione di carattere ambientale. E’ un fatto comunicativo che riguarda l’esattezza del messaggio e la serietà dell’emittente. Evidentemente chi parla di ambientalismo stressando la parola pesticida, posiziona se stesso e i contenuti in un’area populista che allontana gli esperti del settore.
La semplificazione tra bene e male
La semplificazione è un’ottima soluzione per ridurre il carico cognitivo e, per di più, consente di aprire delle valvole di sfogo da cui far uscire determinati malumori e personali frustrazioni. E’ il caso del consumatore che crede nella divisione manicheista tra agricoltura convenzionale e agricoltura biologica. Dove la prima è il male e la seconda è il bene. Un’ingenuità che riflette una certe tendenza verso la tifoseria politica e sportiva; un approccio religioso e acritico che chiude gli occhi di fronte a determinate debolezze, come l’uso del rame, base dell’agricoltura biologica, eppure altamente inquinante e in quanto tale, fortemente attenzionato dall’UE. Eppure convenzionale e bio sono due mondi strettamente legati, capaci di portare e vantare vari punti di forza che andrebbero sintetizzati e non divisi in maniera esclusiva. Ma il manicheismo domina sempre e bisogna prenderne atto.
“Tutti noi tendiamo a cercare prove ed evidenze a sostegno delle nostre idee e a rigettare quelle contrarie ad esse.”
(Raymond Nickerson)
Prossima puntata:
– Il quadrante integrato: dall’eco-fighettismo all’indifferenza totale
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